Concluso il secondo spettacolo, non mi rimaneva che un solo appuntamento da seguire per concludere la mia esperienza con il Festival di Spoleto.
L’ultima tappa della nostra maratona aveva luogo nel Teatro romano alle 21.30: Oedipus Rex di Sofocle. O meglio, dovremmo scrivere da Sofocle.
Il testo, pur fedele, fa da base a un progetto che nasce dalla collaborazione fra il Teatro Vakhtangov e il Teatro Nazionale greco, con la regia di Rimas Tuminas. Lo spettacolo è in due lingue: gli attori del Vakhtangov recitano le parti principali mentre gli attori greci incarnano il Coro classico; i primi si esprimono in russo, i secondi in greco.
Quel che ne nasce è una meraviglia di suoni, espressioni e gesti che conquistano incisività dall’uso di lingue incomprensibili alla maggior parte del pubblico. Il palco è quello di un teatro romano: a differenza di quello greco è privo dello spazio dedicato al coro, che infatti si trova direttamente sulla scena a contatto con i protagonisti.
Un enorme cilindro disteso color ruggine si staglia di fronte al pubblico, probabilmente simboleggia il fato che schiaccia chiunque voglia sfidarlo. Su di esso, che avanza e arretra costantemente – a sua volta simbolo di un tempo circolare e sempre immutabile com’è quello del mito – salgono e scendono gli attori, il coro, le comparse mute, attraverso un sistema di fori e appigli che permette loro di apparire e scomparire con grande resa. Se l’intento del regista è quello di riprodurre il meccanismo stupefacente delle macchine sceniche antiche, ha certamente colto nel segno.
La semplicità dell’impianto scenico, che suddivide sostanzialmente in tre zone la mezzaluna del palco, non ha però limitato l’espressività corporea di alcuni interpreti, spesso liberi di correre e volteggiare per la scena e per i supporti scenografici che la completano.
Il coro, forse l’aspetto più interessante di questo lavoro, recita e più spesso canta, ritmicamente e splendidamente, emozionando e coinvolgendo tutto il pubblico presente.
Gli interpreti sono invece distaccati, ieratici, come venissero da un altro mondo (un mondo divino, un mondo inaccessibile) e lì fossero destinati a tornare, tutti, attraverso la morte o la purificazione. Persino chi è scevro da ogni colpa. I costumi di scena rafforzano questa impressione e sanciscono una volta di più la distanza dalla realtà del coro: quest’ultimo vestito di abiti di foggia quotidiana, mentre i primi con cappelli e manti di stile antico e vagamente orientale.
La vicenda di Edipo, una sorta di antico dramma poliziesco ante litteram sulla ricerca di un colpevole che è insieme vittima e carnefice eletto dalla divinità, presentata a questa edizione del Festival di Spoleto viene rispettata nei minimi dettagli e se si eccettua la presenza delle due figlie – mute – di Edipo e Giocasta che alla fine rappresentano il seguito di un racconto mitico legato a Tebe e ai discendenti di Laio, ogni episodio ha seguito fedelmente i dettami della messinscena classica.
E così l’intervento del Nunzio, presente fin dall’inizio come una muta e inquietante presenza coperta di bende (forse memoria della peste che colpisce Tebe), è l’apice della tragedia, mentre narra agli spettatori il tabù della morte di Giocasta e dell’automutilazione di Edipo con un’enfasi tale da farci rabbrividire, tanto quanto la freddezza della regina – ieraticamente incarnata da Liudmila Maksakova – che, con un semplice gesto tragico, si avvia verso la morte.
Eccellente l’Edipo di Victor Dobronravov, mentre più statici e a volte monotoni ci sono parse gli altri interpreti maschili. Nonostante il vento che rendeva difficoltoso l’ascolto e la presenza necessaria dei sopratitoli, tutto il pubblico ha assistito con attenzione e ha salutato la compagnia con grandi applausi concludendo così anche la mia esperienza al Festival di Spoleto.