La Nouvelle Vague Magazine all’Expo a tre mesi dall’inaugurazione e a tre mesi dalla chiusura. Giusto nel mezzo. Sicuramente ne avrete lette di storie, di recensioni, di pareri. Si ma non quella de La Nouvelle Vague.

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Volutamente siamo andati a visitare l’Expo in questo periodo, per evitare le orde degli studenti di maggio, per evitare le imperfezioni organizzative e strutturali delle prime settimane, per evitare di trovare padiglioni semi completi o addirittura non aperti.

La Nouvelle Vague Magazine all’Expo, perché l’Expo è cultura. Cultura dei popoli, cultura del cibo. L’Expo è un giro del mondo da fare, se si può, almeno in due o tre giorni. Uno non basta. Troppo da vedere e tutto, tutto interessante. No anche noi non abbiamo visto (ancora) tutto. E’ molto difficile riuscirci a causa delle lunghe file di attesa per entrare nei padiglioni (in quello del Giappone si attende dai 60 ai 90 minuti per poi effettuare una visita di 50 minuti…), a causa della vastità del sito, e ovviamente, a causa di tutte le cose interessanti che ogni singolo padiglione propone e per cui vale sempre la pena soffermarsi a lungo. E questo siano essi tecnologici o espositivi. Si perché i padiglioni dell’Expo si dividono proprio in due fazioni. Chi ha scelto di puntare tutto sulla tecnologia (come Giappone, Germania, Emirati Arabi, Cina, Stati Uniti – tra i più visitati), dove il dispiego di immagini computerizzate, giochi di luce, proiezioni, diavolerie tecnologiche si sprecano come in un parco giochi. Chi ha scelto invece di mostrare davvero i propri prodotti o illustrare la propria tradizione alimentare come il Bahrain con il suo giardino di piante che stanno davvero dando frutti. L’Austria con il suo splendido e freschissimo bosco; le coltivazioni iraniane, i semi e le spezie dell’Indonesia; il grano e i distillati della Russia; la pesca dell’Oman;  il tempio buddista del Nepal, ora finalmente completato, con i suoi intarsi realizzati manualmente da pazienti artigiani nepalesi.

E disseminati a volte in posizioni purtroppo defilate, ai margini del decumano (il viale principale che attraversa il sito espositivo su cui si affacciano i grandi padiglioni), i cluster, zone tematiche collettori di varie nazioni che producono lo stesso tipo di prodotto (riso, caffè, spezie, cioccolato), altrettanto interessanti, ognuno con la sua storia, la sua tradizione e anche i suoi costumi.

Come direbbe Jovanotti, l’Expo è proprio l’ombelico del mondo…dove si trovano razze strane di una bellezza un po’ disarmante. Un vero e proprio giro del mondo fatto di colore di pelle differente, di tratti somatici opposti, di ideologie contrapposte. Dove puoi trovare la vitalità del colorato e caotico padiglione Olandese  fatto di formaggi, piccola ruota panoramica, musica a palla (dalle 19 è i padiglione più vivo e preso d’assalto grazie al suo vario e colorato street food) di fianco al piccolo ma sacro e significativo padiglione del Vaticano con esposto un prezioso arazzo di Rubens e il tavolo virtuale dell’operosità e della convivialità. Volti bellissimi come quello dei ragazzi dell’Indonesia, del personale russo; volti cordiali e gentili come quello dei popoli asiatici;  volti allegri come quelli tedeschi, volti segnati dal sole e dal deserto come quelli iraniani.

E in tutti questi volti, in tutti questi padiglioni, cluster, chioschi, c’è la volontà di contribuire, ognuno per quello che può, a fare in modo che questo mondo viva ancora per un po’ e che ancora a lungo possa dare quelle risorse necessarie a nutrire tutto il pianeta.

Questo è il vero Expo. L’Expo che ci è piaciuto, un via vai di persone diverse (tantissimi i visitatori stranieri in questi giorni), di idee diverse, di fermezza e serenità.

Vale la pena farci una visita. Vi resterà la voglia di tornarci e di andare a visitare i meravigliosi Paesi che avrete visto in poche centinaia di metri quadrati.

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