Come è nato il progetto che ha portato lo spettacolo Il carcere è stato inventato per i poveri sul palco?

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Da oltre quattro anni conduciamo, all’interno dell’Istituto, un laboratorio teatrale con la terza sezione (minorati psichici), poi integrato con i detenuti comuni. Le organizzatrici del DOIT Festival, Angela Telesca e Cecilia Bernabei, hanno voluto la nostra partecipazioni come ospiti speciali.

Quanta umanità avete vissuto all’interno del gruppo di lavoro?

In luoghi come il carcere dove si vive tanta sofferenza, stranamente si riscontra tanta umanità e sensibilità. Riguardo le persone che vogliono vivere il percorso teatrale, in questo caso il gruppo della III sezione e detenuti comuni, abbiamo riscontrato molta integrazione e solidarietà. Quello che ci auspichiamo è che noi, al di fuori, possiamo comprendere il loro sforzo e donargli la fiducia che desiderano.

Che tipo di problematiche avete riscontrato?

Portare fuori dei detenuti comporta una lunga burocrazia. Siamo stati aiutati dalla Direzione, dall’Area Educativa e Trattamentale e dal Comando della Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione Rebibbia,che ci hanno appoggiato e supportato nell’organizzazione dell’evento.

Quanto le vite possono migliorare seguendo questo tipo di percorso, quello teatrale?

L’importanza del teatro nelle attività rieducative è da molto tempo riconosciuta. Il teatro permette di tirare fuori parti di se stessi celate o sopite, di liberare emozioni che in contesti, come ad esempio in carcere, sono impossibili da esprimere.

Su che basi avete pensato ai monologhi e ai dialoghi?

Abbiamo voluto rappresentare uno spettacolo che parlasse di loro, della vita carceraria, dei loro sentimenti e delle loro emozioni. La scrittura dei monologhi e dei dialoghi ha seguito questa linea, sfaccettando una realtà complessa e difficile.

Quanta speranza dona tutto questo lavoro?

La speranza di essere ascoltati, di far capire al pubblico che in carcere esistono persone come noi, di essere riaccettati dalla società una volta scontata la pena.

Quanto e come le persone comuni, quelle fuori dalle quattro mura, possono riuscire a comprendere il messaggio dietro questo meraviglioso impegno?

Uno degli scopi dello spettacolo è proprio trasmettere questo messaggio. Abbiamo cercato di essere ironici, a volte divertenti, per avvicinare di più il pubblico a questa realtà.

Come percepite il futuro di questi ragazzi, uomini e donne, che desiderano solo riacquistare dignità?

Sicuramente non facile. Spesso la società li considera con pregiudizio, che rende più difficile e lento il futuro reinserimento.

Che spinge, secondo voi, questa gente a vivere in carcere e a mediare con la vita e ricavarne, poi, qualcosa di positivo?

Il percorso carcerario dovrebbe essere un percorso di ri-socializzazione e un periodo che sia speso nel modo più positivo possibile, partecipando alle attività e iniziative che la Casa di Reclusione Rebibbia mette a disposizione della popolazione detenuta.

 

L’integrazione come va lavorata, sudata e acquistata?

L’integrazione è un punto di incontro tra la società esterna e il mondo carcerario. E’ frutto di un percorso fatto all’interno dell’Istituto e della volontà della comunità di essere unita e di ridare, a chi ha commesso degli errori, la possibilità di una nuova vita.

Grazie a Daria per il tempo che ci ha consesso.

 

 

(Ringraziamo Federica Flavoni di Kirolandia per l’immagine copertina)

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