Country for old men. prodotto da Rai Cinema e GraffitiDoc. regia di Pietro Jona, Stefano Cravero. Anteprima assoluta 21/1/18 ore 16.30 Teatro Miela
Country for old men è in concorso nella sezione Premio Salani. Un documentario che inchioda lo spettatore alle sue responsabilità. Alle responsabilità di una società che sembra non essere in grado di prendersi cura di se’ stessa.
Alle emorragie di Paesi che vedono i propri giovani fuggire verso nuovi orizzonti per tentare sorti più fortunate, ci siamo abituati. Lo scenario tracciato da Country for old men ci prepara a fare i conti con un’altra emorragia, quella degli old men, appunto.
Country for old men è la storia di persone deluse dal sogno americano, messe nelle condizioni di non potersi godere ciò per cui hanno lavorato.
Persone tradite nelle aspettative, che dopo aver passato la vita a contribuire attivamente all’economia del proprio Paese, si ritrovano a dover emigrare verso paesi più poveri.
Rifugiati economici delux
Americani in là con gli anni che scelgono di trasferirsi in Ecuador per vivere il loro sogno americano fatto di ville con grandi parchi, giardinieri, amici americani, finti tentativi di integrazione.
Un popolo che ricrea le proprie abitudini a svariate miglia da casa. Un popolo che annega la nostalgia nella coca cola davanti alla tv cercando una partita di football con telecronaca in lingua yankee.
Con tutti questi elementi non potevamo lasciarci sfuggire la possibilità di intervistare i due registi Pietro Jona, Stefano Cravero
La prima domanda che viene da porre è come siate entrati in contatto con il fenomeno dei rifugiati economici?
Un’amica di Pietro che viveva e lavorava in Ecuador ci ha parlato per la prima volta dei tanti cittadini americani che popolavano il piccolo paese di Cotacachi. Abbiamo incominciato ad interessarci al fenomeno leggendo e documentandoci e abbiamo scoperto che soprattutto su internet c’era un gran parlare dell’argomento. Abbiamo persino trovato vere e proprie agenzie che aiutano chi è tentato dal trasferimento in Ecuador.
Quanto tempo avete impiegato per la lavorazione?
Dopo il periodo di documentazione, Pietro ha deciso di andare a Cotacachi con una telecamera per rendersi conto di persona della situazione. Al suo ritorno aveva già stretto molti contatti e girato del materiale che ci sembrava interessante. Abbiamo quindi deciso di proseguire con il progetto e grazie all’interesse della GraffitiDoc siamo riusciti ad avere i fondi necessari per portarlo a termine. Nell’arco di due anni siamo tornati altre due volte in Ecuador per girare, poi abbiamo affrontato il montaggio in una prima fase da soli, poi con il provvidenziale intervento di Luca Mandrile siamo riusciti ad arrivare alla versione definitiva. Difficile calcolare, ma probabilmente ci abbiamo messo circa tre anni per arrivare dall’idea al film finito.
Sembrerebbe che gli americani siano fissati con i muri. Quali sono, secondo voi, le differenze e le analogie tra il muro di confine USA-Messico e quello delle ville gringos-chicos?
Sicuramente la costante che troviamo in questi due fenomeni è quella della differenza economica: in entrambi i casi sono i ricchi a volersi separare fisicamente dai poveri. Nel caso delle “gated communities” di Cotacachi ci sembra che i muri siano più il frutto di una paura istintiva che di un pregiudizio di tipo razziale.
Per quanto indiscutibilmente esagerati, i muri dei nostri protagonisti sembrano essere costruiti più per difenderli da ipotetici malintenzionati generici che non per separarli dai locali. In fondo il fenomeno delle gated communities in molti paesi del Sudamerica (e non solo) coinvolge le fasce più abbienti della popolazione locale ed è legata ad un presunto o reale problema di sicurezza.
Nello scenario da voi raccontato il modello ha una costante: nonostante i dreamers siano gli americani, l’uomo bianco fa la parte forte perché ha dalla sua il denaro, tanto da non sentirsi nemmeno in dovere di imparare la lingua. Pensate che ne abbiano consapevolezza di questo?
Il campione dei nostri personaggi è in realtà piuttosto variegato e a nostro giudizio abbastanza rappresentativo della complessità della società americana. Ci sono i repubblicani in stile tea party, ci sono i moderati, ci sono i democratici che sono fuggiti per la paura delle armi. Di fatto alcuni di loro cercano di imparare lo spagnolo perché vorrebbero integrarsi davvero nel mondo che li ospita, ma anche l’età rappresenta un limite non indifferente. Teniamo anche conto che nella maggior parte dei casi parliamo di persone che hanno viaggiato poco o nulla e che non vengono dalle grandi città delle coste ma dal mondo piuttosto chiuso del mid-west, del sud o della corn-belt.
In Europa abbiamo un fenomeno simile con i nostri pensionati che si trasferiscono alle Canarie. Nel vostro film lasciate allo spettatore tante domande come ad esempio se noi, come società, abbiamo sbagliato qualcosa. Voi che idea vi siete fatti?
Certamente il fenomeno che abbiamo affrontato nel film è la conseguenza di qualcosa che è andato storto, non solo nell’american dream, ma diremmo nella più ampia concezione del capitalismo contemporaneo. Gli ideali di progresso e crescita economica spesso estremi che hanno guidato la società occidentale per lungo tempo hanno incominciato a mostrare pesantemente i loro limiti ormai da qualche decennio, ma solo quando a patire la crisi è stata la classe media ci si è davvero resi conto di cosa stava succedendo. Questo è ciò che ci ha particolarmente interessato quando abbiamo pensato al film.
Nel film si ha come l’impressione che l’opulenza della quale molti di loro si circondano, sia in realtà un modo per riempire la solitudine che le migrazioni si portano dietro, credete che sia errato trarre una conclusione del genere? E soprattutto, credete che loro ne siano consapevoli?
In molti casi è assolutamente vero. Sicuramente esiste un livello di finzione semi-inconsapevole, una tendenza a circondarsi eccessivamente di segni di benessere più per autoconvincersi che per ostentare. Non dimentichiamo che una delle ragioni principali che hanno pesato sulla scelta del trasferimento è proprio quella del mantenimento o addirittura dell’innalzamento del tenore di vita originario.
Dopo le riprese, credete che questi dreamers, si siano davvero avvicinati alla felicità?
A costo di essere banali, nel lungo periodo che ci ha avvicinati ai nostri personaggi ci siamo convinti del fatto che la felicità è più dentro alle persone che nei luoghi in cui si vanno a rifugiare. Chi è andato a Cotacachi a fare lo sbruffone, a fare i soldi e a ostentarli ha una vita finta e probabilmente infelice esattamente come quella che si è lasciato alle spalle negli Stati Uniti. Ma c’è anche chi affronta la propria nuova esistenza andina con interesse, sincero entusiasmo e spirito di avventura. E c’è addirittura chi a Cotacachi ha scoperto di essere una persona diversa da quella che era.
Dopo Country for old men?
Nonostante la nostra età, Country for old men è un’opera prima. Realizzarlo ci è costato moltissima fatica, ma ci ha anche fatto scoprire il piacere di raccontare storie mettendosi in gioco in prima persona. Abbiamo anche commesso errori dai quali speriamo di avere imparato. In questo momento abbiamo moltissime idee e stiamo cercando di capire quale abbia più senso provare a realizzare, e come.