Dopo il successo della scorsa stagione, We Will Rock You, lo spettacolo con le musiche dei Queen è di nuovo in tour  nei teatri italiani (questa settimana al Colosseo di Torino).

Punto di forza della nuova edizione del musical, scritto e originariamente prodotto da Ben Elton, in collaborazione con Brian May e Roger Taylor, è una rivisitazione e implementazione tutta italiana, che porta a trattare argomenti di attualità come il bullismo, l’istruzione, il riscaldamento globale, l’omologazione culturale e l’oppressiva presenza dei social nella vita quotidiana.

Temi che Claudio Trotta, fondatore di Barley Arts e produttore della versione italiana dello show, ha approfondito in questa intervista, senza tralasciare puntuali ragionamenti sullo stato di salute dello spettacolo dal vivo in Italia.

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Tornando col pensiero al periodo dei grandi live – a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta – lei avrebbe mai immaginato di imbarcarsi in un progetto simile?

La risposta è sicuramente no, principalmente perché io non sono un grande amante dei musical, o meglio, io adoro i film tratti dai grandi musical americani, ho amato molto Jesus Christ Superstar, quando ero ragazzo, però non riesco a vedere fino in fondo Cats o Notre Dame de Paris, perché mi annoio.

E’ anche vero che lo show immaginato dai Queen e forse – e lo dico senza falsa modestia –quello che stiamo facendo noi, è qualcosa di più di un musical: è uno spettacolo teatrale, dove la musica è un elemento fondamentale e dove prosa, canzoni, luci, coreografie e scenografie contribuiscono a raccontare una storia ambientata in un prossimo futuro, ma che in realtà stiamo già vivendo.

In base alla sua esperienza nel settore del live entertainment, cosa manca rispetto a trent’anni fa?

Sicuramente manca l’accessibilità, che è stata, per decenni, la grande forza della musica dal vivo e, in particolare, della cultura rock; in passato il mondo della musica dal vivo, pur non essendo economico, era comunque sostenibile, a livello di prezzi e disponibilità dei biglietti.

Da circa una decina d’anni, attraverso un meccanismo di tipo speculativo, messo in atto dalle multinazionali dello spettacolo dal vivo, l’accessibilità se la possono permettere solamente i ricchi e i fanatici. Ovviamente, le mie sono iperboli… ma neanche poi tanto.

Qual è, invece, lo stato dell’arte del teatro?

Io penso che il teatro non stia particolarmente in salute, perché, in ogni caso, i nuovi autori di prosa fanno molta fatica a emergere: il pubblico è sostanzialmente di età piuttosto avanzata e quindi preferisce andare sul sicuro e vedere i cosiddetti “classici”.

Il musical, a mio parere, necessita di una totale rifondazione, perché sotto il nome “musical” vanno in giro spettacoli di qualsiasi genere, realizzati malissimo: si sente male e si vede peggio, si capisce a malapena quando gli attori recitano e cantano.

Buona parte degli spettacoli non hanno la musica dal vivo e raramente c’è una regia che spiega agli interpreti chi sono i loro personaggi e qual è la loro evoluzione. Trovo, inoltre, agghiacciante, la tendenza di tradurre le canzoni e cantarle in italiano, però mi rendo conto che, in certi casi, si ottengono risultati di botteghino notevoli.

Rispetto all’edizione 2009/2010, in questo allestimento di “We Will Rock You” si percepisce meno la presenza dei Queen nel team creativo. Cosa è cambiato?

La risposta è molto semplice: il primo allestimento era una replica della versione originale inglese, che ha debuttato nel 2002 al Dominion Theatre di Londra, dove è rimasta per tredici anni.

In quell’occasione, Brian May e Roger Taylor hanno partecipato alla fase finale delle audizioni, relativa sia ai musicisti sia ai protagonisti. Nel 2017, quando abbiamo acquisito nuovamente i diritti per produrre lo spettacolo, si trattava di realizzare una versione “non-replica”; avevamo l’obbligo di portare in scena un nuovo show, senza alcuna collaborazione da parte dei Queen.

Allora abbiamo costruito una scenografia completamente nuova, nella quale si immagina che il mondo diventi un centro commerciale in rovina; nuove coreografie curate da Gail Richardson; e, quest’anno, una nuova regia firmata da Micaela Berlini.

Inoltre, io, la regista e Valentina Ferrari abbiamo rielaborato e aggiornato lo script originale, semplicemente perché nel 2002 la rete non era così invasiva come adesso, gli smartphone nemmeno esistevano e soprattutto non c’erano un palese e crescente appiattimento dei gusti medi da parte delle nuove generazioni e una dipendenza così preoccupante dai social media.

Per un prossimo futuro, sta pensando a qualcosa di “meno rock” sul quale imprimere il marchio Barley Arts?

Io sto valutando alcune possibilità e, tra queste, vorrei riuscire a scrivere, insieme a qualcun altro, uno script ispirato al mio libro “No Pasta No Show”, che contiene 40 anni di storia collettiva del mondo dello spettacolo. Poi ci sono altre idee; in generale, a me interessano spettacoli che possano essere condivisi, raccontati e creino armonia.

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