Torna a Teatrosophia la Compagnia Ragli con un nuovo spettacolo. In scena dal 31 gennaio al 2 febbraio Chi niente fu (non dirà niente) il testo scritto da G. Pipino con Dalila Cozzolino, diretto da Rosario Mastrota.
In scena da sola per raccontare la storia di tre personaggi. Quali sono?
I tre personaggi che raccontiamo, scritti da Giuseppe Pipino, sono degli emarginati. La società e la spietata operazione di normalizzare che questa porta, li ha costretti al limite. Il limite è diventato un luogo: un palazzo fatiscente nei quali vivono tutti e tre, occupando tre appartamenti diversi. Carmela abita il primo appartamento. Non cammina mai scalza, indossa sempre tre paia di calzini. Niente e nessuno riuscirebbe a vederle, toccarle, sporcarle i piedi. Ha paura di rovinarli, i suoi piedi. Sua madre glielo ripeteva sempre di stare attenta ai piedi. I piedi, un grande privilegio nella sua famiglia, un altrettanto grande senso di colpa. Avere i piedi costringe all’inerzia, alla solitudine, alla paura di fare passi verso la vita, per un’intera vita. La vediamo rientrare a casa per fare i suoi ultimi passi.
Per Marino, che abita il secondo appartamento, non c’è più alcuna possibilità di esibire la sua libertà mostruosa ma fallace. Perdere una persona è perdere il mondo, perdere qualcuno è la fine del mondo. Esiliato dalla sua famiglia dopo uno scandalo legato alla “bestia di femminilità” che si porta dentro, Marino vorrebbe tornare nella sua vera casa, ma per strada nessuno gli parla, tutti lo guardano solo dopo il suo passaggio. E ridono un po’.
Elvezia vive nell’ultimo appartamento. Elvezia forse è ormai un fantasma, o così appare. Dal sei marzo 1942, non vede l’altra parte del cielo, non ha visto metà della guerra, nella disperazione ammutolita davanti ai bombardamenti. Non vede più l’altra parte, solo una, solo una metà. I rumori allora si fanno più grandi, occorre dare loro un nome. Tutto quello che sta dall’altra parte, che sfugge alla sua vista, tutto quello che le corre di lato prima che possa voltarsi, non ha forma, ma un nome sì. Si perde nei ricordi rivedendo tutto quello che le passa davanti e poi scompare.
Quale ti rappresenta di più?
Sono personaggi molto diversi da me, eppure in ognuno di loro ho trovato una mia voce. Perché in tutti è chiara l’inadeguatezza e la solitudine. Due stati che tutti conosciamo, che attraversiamo e che ci trasformano.
Come ti sei preparata per affrontare questi tre ruoli?
Mi piace che tu parli di ruoli e non di personaggi. Il personaggio è una invenzione contemporanea che scinde l’attore da sé. Quando qualcuno dice: “entrare nel personaggio”, io resto perplessa. Dove dovrei entrare? Sul palco ci va l’attore, sempre. E l’attore è sempre autore della sua creazione. Il privilegio per me è quello di lavorare con un regista che condivide questo pensiero e mi lascia trovare la strada per poi intervenire e renderlo visibile. Ho lavorato molto sull’analisi del testo, perché l’altro privilegio è avere l’autore con noi e quindi dialogarci. Amo molto fare ruoli estremi, forse è la mia strada e il mio desiderio, quello che ricerco di più. È bello vedere come quello che si diventa sul palco riscrive quello che era solo scritto, appunto: lo trasforma, lo fa fiorire.
Dove sono ambientate queste storie?
È un palazzo, come dicevo, immaginato come una sorta di limbo. Fuori dal mondo. Un palazzo atopos, senza luogo e fuori luogo. E infatti non è solo un palazzo, è come se fosse vivo: accoglie e protegge questi personaggi, li tiene fuori dal mondo.
Non è il primo lavoro in cui sei diretta da Rosario Mastrota. Come definiresti il rapporto professionale con questo regista?
Con Rosario c’è una collaborazione, una stima e un affetto che dura negli anni e cresce sempre di più. Abbiamo fondato Compagnia Ragli insieme – il terzo è Andrea Cappadona – proprio per darci un luogo di ricerca. Lavoriamo molto sulla scrittura di scena e il filo rosso che portiamo avanti è legato a tematiche sociali e civili. In particolare ci interessa parlare di “potere”, le mille forme che esso assume, il suo lato performativo e la capillarità con la quale esso sconfina dalla dimensione pubblica a quella privata, confondendosi spesso con la violenza. E parlo di violenza non necessariamente fisica e comunque altrettanto grave. In “Chi niente fu”, per esempio, il potere è quello della famiglia, in tutti e tre i casi, che scaccia “l’anormale”, il diverso. E qui ci sarebbe da dire tanto e tanto altro ancora. Con Rosario c’è la condivisione di un vocabolario comune ormai, ma per nulla rigido, anzi, sempre pronto a ricercare nuovi significati per nuovi racconti.
Tra i testi che hai interpretato c’è qualcuno che ti piace di più?
“Chi niente fu” è un testo sorprendente perché ha tre voci completamente diverse. Diverso è lo stile, la narrazione, la forma ecc. E mi piace tanto questa eterogeneità e la capacità di dare subito forma a delle immagini. Dei testi rappresentati in passato, e Shakespeare diciamo che non vale, immagino tu ti riferisca ad autori contemporanei, è “L’Italia s’è desta” di Rosario Mastrota il testo che più amo.
Quali sono i progetti futuri della Compagnia Ragli?
“The Speaking Machine” il 27 febbraio al Teatro Ap, a Roma. È un testo scritto da Victoria Szpunberg, autrice argentina bravissima che condivide la riflessione sul tema del potere nello spazio privato, incontrata grazie al progetto FabulaMundi Europe Connection. E colgo l’occasione per invitarti e invitare chi leggerà!