Lo spettacolo Cartoline da casa mia, che è andato in scena all’Off Off Theatre di via Giulia, non parla di comunicazione, bensì del suo opposto. Di una pericolosa e diffusa tendenza all’isolamento volontario dalla società che investe alcuni giovani: li chiamano neet o nini o né-né in occidente. Il termine originario nasce in Giappone che, ad oggi, è il Paese con il numero più alto di Hikikomori, così è lì chiamato questo fenomeno contemporaneo. A prima vista, appare come la messinscena di una scelta più o meno consapevole di fuga dal mondo reale, alla ricerca, forse, di un nuovo contatto.
Ma il titolo rischia di trarre in inganno. Non c’è mai dialogo fra il palco e la platea. Le “cartoline” restano a casa. Ben chiuse, isolate, forse mai spedite, ma solo immaginate. L’attore resta solo in uno spazio alienante e vuoto, innaturale, fantascientifico, senza vie di fuga e forse, per questo, adattabile a ogni spazio esperito dagli spettatori. Da ogni spettatore. Ognuno possiede il proprio spazio, mentale e fisico, e può immaginare se stesso rinchiuso nella propria stanza, se vuole.
Senza immedesimarsi in Folco, il protagonista: non è richiesto, non è voluto. Più dell’immaginazione è l’osservazione ad essere stimolata, ricercata, pretesa, ostentata: omaggio alla iperspettacolarizzazione delle vite comuni a cui assistiamo da anni in tv, forse. Ma c’è di più. La lente teatrale impone un impegno che superi la semplice osservazione. Un approccio critico, forse, per informarci che alla origine di questa fuga dalla realtà stessa c’è la nostra ossessione di non lasciare più nulla al privato, di vivere pubblicamente ogni istante. In quest’ottica, la stanza diviene (o torna ad essere) un nuovo universo, stabile e protettivo, solitario, in cui rintanarsi per non essere vittima del mondo (di quel mondo da grande fratello o Truman Show, ipergiudicante, ultracompetitivo).
Una situazione, quella dell’isolamento (volontario o non), che non è nuova al teatro. Uno spettacolo dal titolo Hikikomori di Holger Schober va in scena quasi contemporaneamente al Teatro Due di Parma. Non è un caso, allora, che il fenomeno, spaventoso e affascinante allo stesso tempo, abbia colpito anche la creatività di Antonio Mocciola. Giornalista e scrittore che aveva già sperimentato analisi e denuncia con Addosso, un volume in cui il corpo diviene spazio per la parola.
Qui in teatro, invece, la parola compie un percorso opposto: non è incisa sulla pelle, ma fuoriesce da essa in forma di suono, lasciando nuovamente nudo l’attore. Una nudità – scelta registica o autoriale poco importa – che non è ostentazione di sé, ma privazione. Un’oscenità che costringe lo spettacolo ad essere vietato ai minori (come se i minori non potessero vederne ovunque di corpi) solo perché dimostra che la sofferenza è in grado di privarci fino alla pelle perfino di un rapporto osmotico con il mondo e, forse, della stessa vita. Ad di là di ogni giudizio etico o morale sulla scelta intrapresa, difesa e supportata peraltro da un’apposita associazione, l’isolamento sembra nascondere un trauma, qui accennato, sussurrato, ma mai dichiarato apertamente. Si rimane tutti vittime di una incomprensione, quasi colpevoli inconsapevoli della scelta di Fosco.
La regia di Marco Prato scarnifica poi ogni passaggio, asciuga i movimenti, li trasforma a volte in danza, in movimento orgiastico e ossessivo, ingigantito dalla musica assordante e dalle luci colorate che disegnano, di volta in volta, linee e ombre sul corpo del ragazzo. Un disegno in costante mutamento, come la sua anima.
Al contrario il silenzio e la luce fredda della finestra trasmettono l’idea di un esterno non amichevole, altro da sé, che il protagonista non cerca mai se non per qualche raro respiro profondo che non prelude alla fuga. La finestra e le porte non esistono fisicamente in scena, tutto si concentra su Fosco alias Bruno Petrosino sulla cui fisicità si poggia la forza espressiva di testo e regia. Con faticoso impegno fisico ed emotivo, egli ci trasmette il disagio e il senso di solitudine. Salta e si muove con veemenza, poi cade e tace o si rannicchia, la voce lo segue, ma il corpo è più espressivo, vince sulla costruzione mentale della parola, esprime meglio tutto il dolore e la difficoltà di un isolamento inevitabile.
Off Off Theatre
Cartoline da casa mia
di Antonio Mocciola
con Bruno Petrosino
regia Marco Prato
Ph Gaetano Cutri