Vi emozionerete, piangerete sicuramente e vi farete molte domande
Così viene lanciato Cabaret (al teatro della Luna di Milano fino al 22 Novembre e poi in tour fino la prossima primavera), il nuovo lavoro della Compagnia della Rancia di Saverio Marconi. E mai così veritiera è uno strillo dell’ufficio stampa, solitamente addetto ad esaltare un lavoro per contratto.
Ma questa volta ha scritto la verità. Si esce con gli occhi umidi da queste due ore travolgenti di sentimenti contrastanti, di affermazioni dure, di coinvolgimenti emotivi forti che possono andare dall’ironia beffarda, sporca, sguaiata dei primi minuti per arrivare alla disperazione finale che non lascia un barlume di speranza.
Nelle due ore (intervallo compreso), si sviluppa la storia nota di Cabaret.
Siamo nella Berlino degli anni ’30, nel delicato e tragico periodo che porterà alla nascita del Nazismo.
Lo scrittore americano Cliff Bradshaw (Mauro Simone), arriva nella capitale tedesca la sera dell’ultimo dell’anno. L’intenzione è di trovare una storia da scrivere. Accolto dall’anziana affittacamere Fraulein Schneider (Altea Russo), viene indirizzato dal di lei spasimante, il timido e tenero fruttivendolo ebreo Herr Schultz (Michele Renzullo) a trascorre quella festa al Kit Kat Club, un cabaret di infimo ordine, decadente, ma con la splendida Sally Bowles (Giulia Ottonello), una ragazzina inglese di belle speranze con il sogno di diventare una grande attrice, stella del Kit Kat Club.
Cliff, oltre a conoscere dalla irruente Sally, che si trasferirà armi e bagagli nella sua piccola stanza, entrerà qui in contatto con Ernest Ludwig (Alessandro di Giulio), che, capendo che il giovane scrittore è
A corto di soldi, gli offrirà di compiere dei viaggi a Parigi, facendolo diventare a suon di marchi, un trafficante che contribuirà, suo malgrado, alla nascita del nazismo.
Le storie quindi si intrecciano e si snodano sia all’interno del Kit Kat Club, sia negli appartamenti di Fraulein Schneider. E le storie avranno un denominatore comune: i soldi. Per soldi le ragazze si prostituiscono, per soldi Cliff diventerà faccendiere nazista, per soldi Fraulein rifiuterà la proposta di matrimonio di Schulz, ebreo braccato dai nazisti (“ma io sono tedesco!” ripete spesso).
L’amore non è permesso. Neppure quando Sally si accorgerà di aspettare un bambino da Cliff. Per ambizione ed egoismo deciderà di abortire all’insaputa dello scrittore.
Ma la sua ambizione si trasformerà presto in fallimento a causa dei nuovi tragici venti politici che porteranno l’umanità intera a vivere senza un bagliore di speranza sopra tutti i protagonisti della storia incombe ammaliante, tentatore, quanto ambiguo e tormentato, il Maestro di Cerimonie (Giampiero Ingrassia) che, da presentatore del Kit Kat Club, sottolineerà gli avvenimenti con stravaganza, ironia e angoscia.
Saverio Marconi allestisce per la terza volta Cabaret. E questa lettura è decisamente coraggiosa. Per il pubblico del musical italiano (del musical, non della prosa), gli spettacoli del genere sono allegria, danze, luci…Marconi invece va controcorrente (ogni tanto qualcuno ci prova, e paradossalmente sono i lavori meglio realizzati, come Salvatore Giuliano e Spring Awakening, ma purtroppo poco seguiti) con questo allestimento duro, scarno, decadente. La scenografia è essenziale e a vista, un teatro nel teatro. La decadenza si avverte subito quando la luminosa insegna “Cabaret” cade di botto, sulle prime note di “Wilkommen”, restando così penzolante di lato per tutto lo spettacolo. Nel locale si vedono solo teli sgualciti che fungono da sipario (che in realtà servirà a delineare il confine tra quanto accade nel locale e quanto accade fuori), vecchi tavolini. L’appartamento è essenziale, povero.
Le luci sono minime e non c’è fondale per cui i movimenti di scena ed attrezzisti sono sotto gli occhi di tutti.
Marconi si affida quindi totalmente agli attori per la resa dello spettacolo. E loro accettano la sfida: sono bravissimi, tirando fuori ognuno il meglio di sé, cariche emotive esplosive che portano lo spettatore prepotentemente dentro il Kit Kat Club, le cosce delle ballerine, le stanze e lo sconvolgente finale (che volutamente non racconto). Il tutto solo con la forza del loro talento visto che non possono nascondere eventuali mancanze dietro paillettes, luci, filtri, maschere.
Giampiero Ingrassia è qui la massimo della sua maturità artistica. La mimica facciale, l’intensità degli sguardi, le movenze così come la sua voce calda, passano dallo sberleffo al dramma in una frazione di secondo.
Questo sottolineato dal trucco pesante e sbavato che ricorda il Joker burlone di Jack Nicholson…
Ed è l’Ingrassia drammatico che preferisco al pur ottimo Ingrassia brillante del precedente Frankenstein Jr.
Coinvolgente e sorprendente Giulia Ottonello che tiene magistralmente il palco e il pubblico con la sua stupenda voce, qui messa in rilievo da canzoni come “Life is a cabaret” struggente solista davanti ad una cortina rossa, cornice del fallimento del suo sogno di fama e gloria.
Ottima nella parte dell’anziana affittacamere Altea Russo (che anziana non è). Convincente Mauro Simone , sognatore dai piedi ben piantati a terra.
Con loro e con Michele Renzullo, Alessandro di Giulio, Valentina Gullace, Ilaria Suss, Nadia Scherani, Marta Belloni, Andrea Verzicco, Gianluca Pilla.
Una compagnia ben affiatata, molti dei quali reduci da tre anni di Frankenstein Jr, che offre questo titolo e che lascia lo spettatore con tante domande in testa e con tante situazioni in cui riconoscersi.
Chi di noi non ha mai rinunciato all’amore per convenienza o per influenze esterne? Chi di noi non è stato costretto a rinunciare ai propri sogni, alle proprie ambizioni? Quante volte i fatti ci hanno tolto la speranza?
Allora, nel periodo del Nazismo, come adesso. E la cronaca di oggi lo conferma. Sulle prime pagine dei giornali di stamani la notizia dell’accoltellamento di un ebreo a Milano.
La storia, e non solo in questo ultimo caso, purtroppo sempre si ripete. Pare non poterci fare nulla. Cabaret non da speranze. Ma il mondo si. Oggi infatti a Milano c’è il sole.