Bohemian Rhapsody è un inno d’amore per Freddy Mercury e la musica dei Queen, veicolato da una regia consapevole e sempre coraggiosa che si posa soprattutto sulla bravura di Rami Malek.
Who wants to live forever?
Era questa la domanda che i Queen gettavano al loro pubblico nell’omonimo brano del 1986. Forse la band britannica non poteva ancora saperlo, allora. Non poteva immaginare che la loro musica, la potenza dei loro testi, l’originalità del loro sound così come del suo vocalist avrebbero continuato a sfidare la storia e l’oblio, ritagliandosi un posto privilegiato nel gusto musicale di tutto il mondo. Forse non avrebbero potuto indovinare che sarebbe arrivato il giorno in cui si sarebbero fatti dei film su di loro e, soprattutto, sulla figura emblematica di Freddy Mercury che, al pari di artisti come David Bowie o Bob Dylan, avrebbe finito con il dettare il gusto di un intero genere.
Eppure è questo che è accaduto. I Queen sono diventati leggenda e ora Bryan Singer – regista dell’universo supereroistico legato agli X-Men – ha diretto un film che vede Rami Malek nel ruolo impegnativo di Freddy Mercury.
Il film ripercorre il percorso di Freddy Mercury, da quando era solo un addetto ai bagagli all’aeroporto di Heathtrow fino al concerto al Wembley Stadium per il Live Aid. Un percorso durato circa quindici anni e fatto di sogni realizzati, sperimentazioni e successi; ma anche di cadute nel mondo della droga, di abbandoni e solitudini. Quello di Bryan Singer è il dipinto di un uomo che è diviso tra un inferno privato e un’immagine pubblica fatta di riconoscimenti e lustrini in grado di catturare persino la più piccola particella di luce.
Bohemian Rhapsody è stato, sin dall’inizio della lavorazione, un progetto ambizioso e difficile, che ha visto alternarsi registi e attori che, per un motivo o per un altro, finivano sempre con l’abbandonare la produzione, quasi ci fosse una costante quanto sotterranea paura di cimentarsi con una storia tanto grande e personaggi tanto iconici.
Lecito, dunque, approcciarsi al film con aspettative non troppo alte. Tuttavia il film di Bryan Singer – su cui è intervenuto Dexter Fletcher, dopo che il primo è stato licenziato – si scrolla di dosso il timore di dover stare con il freno a mano tirato, riuscendo a conquistare già dalla primissima sequenza. L’uso sapiente della macchina da presa non si contenta di accostare inquadrature più o meno corrette, ma le costruisce, le dipinge con una fotografia quasi pop, mentre cerca i volti dei protagonisti nei luoghi più inaspettati – il riflesso di una lente da sole, il profilo smussato dentro il fumo di un locale per omosessuali -.
Il risultato è una pellicola immersiva, che avvolge lo spettatore con potenza di una colonna sonora che odora di leggenda e che, soprattutto, deve molto all’interpretazione del suo personaggio principale. Rami Malek diventa il volto e il sangue di Freddy Mercury, il suo spettro su pellicola, un’emanazione del cantante. Non un omaggio, né tanto meno una semplice prova attoriale. Con l’interprete di Papillon, Freddy Mercury sembra tremare da dietro il velo della morte, come se potesse allungare di nuovo la mano per sfiorare il mondo con la forza dei suoi brani.