Oscar Wilde sotto processo a teatro, tra ricostruzione giudiziaria, letteratura, arte e commozione
Se l’omosessualità è stata ufficialmente eliminata dall’elenco delle malattie mentali solo nel 1990, è “facile” tollerare l’idea che nell’epoca vittoriana tardo-ottocentesca in cui visse e vide la sua fine Oscar Wilde – l’autore inglese più letto in Europa dopo Shakespeare – essa fosse considerata qualcosa di assolutamente immorale, un delitto innominabile.
Non sorprende dunque che le accuse mosse allo scrittore e ricostruite nella pièce Atti Osceni – I tre processi di Oscar Wild – in scena al Teatro Elfo Puccini fino al 12 novembre – vadano oltre la condanna di una condotta errata, e si appellino invece a una più alta e ampia difesa del “bene comune”: un grande cappello moralistico sotto cui percepiamo distintamente muoversi tutto il testo del drammaturgo venezuelano Moises Kaufman, qui portato allo spettatore dalla regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia.
Può stupire invece ai meno documentati, che l’Opera sui tre processi a Oscar Wilde cominci con la messa in scena di una Corte in cui Wilde inizialmente è “parte lesa”.
Ma la storia – e il testo teatrale – ricorderanno subito che tutta la vicenda giudiziaria dello scrittore (con il ritrovarsi sotto processo come imputato niente meno che di Lesa Maestà per atti “innaturali” tra persone di sesso maschile) prese il via proprio dalla causa che lui stesso intentò inizialmente contro il Marchese di Queensberry, il contrariato padre del giovane Lord Alfred Douglas (con cui Wilde ebbe un’intensa relazione di affetto) scagliato in una furiosa campagna contro l’Artista.
Uno spettacolo – Atti Osceni – in cui il palco teatrale diventa aula di tribunale, ma non solo: si costituisce come spazio di narrazione a più livelli.
Il testo chiede infatti agli attori la capacità di farsi “narratori” delle vicende oggetto della ricostruzione giudiziaria e subito dopo “personaggi” attivi delle stesse, quindi di passare dal rapporto diretto col pubblico alla ricostruzione di un altro luogo e di un’altra epoca.
Ne fuoriesce un articolato e incalzante collage di testimonianze verbali e visive, sottolineato da un sapiente uso delle luci in chiave espressiva.
Un testo di per sé articolato (del resto, la verità è raramente pura e non è mai semplice, affermava Wilde) che può risultare complesso da seguire dando spazio alle diverse voci coinvolte nei fatti, ma che invece scorre e appassiona, grazie alla calibrata espressività recitativa e al ritmo serrato del dibattito giudiziario.
Questo, infatti, apre sovente “squarci poetici e incursioni commoventi nell’opera del poeta” (come ricordano le stesse note al testo e come davvero accade).
Nel processo teatrale a una “inclinazione” vista socialmente come “vizio”, emerge con forza la difesa di Wilde della bellezza, dell’espressione artistica e del contributo che può portare al benessere sociale. “Non esistono opere morali o immorali, ma solo opere ben scritte o meno” – sentiamo dire al personaggio Wilde (fustigatore di tutte le ipocrisie di una società puritana come quella vittoriana) in merito al capolavoro Il ritratto di Dorian Grey, oggetto a suo tempo di accese critiche mediatiche.
Un carattere che il grande interprete Giovanni Franzoni riesce bene a restituire, incarnando un Oscar Wilde verosimilmente dandy ma anche umano, sicuro di sé, consapevole del proprio genio artistico e visionario anche nei momenti di maggior sofferenza.
Alto in generale il livello performativo del cast completamente al maschile e multiruolo (che comprende anche un debuttante assoluto, Ludovico D’Agostino, fresco di diploma alla “Paolo Grassi”).
Tra le interpretazioni di particolare rilievo quelle di Giusto Cucchiarini (diverse le collaborazioni con Fondazione ERT-Emilia Romagna Teatro, compagnia Mamimò e Scuola Paolo Grassi) e di Giuseppe Lanino (l’attore vanta una lunga collaborazione con Antonio Latella) nei panni del difensore di Wilde.
Spicca il contributo dell’espertissimo Ciro Masella (diretto negli anni, tra gli altri, da Luca Ronconi), in scena nei panni di un marchese di Queensberry sopra le righe e il cui apporto contribuisce a spezzare la tensione dovuta all’argomento oggetto dell’Opera.
Commovente il finale corale: sotto lo sguardo di una foto reale dello Scrittore risuonano, sofferti, alcuni versi della sua Ballata del carcere di Reading. Perché
“ogni uomo uccide ciò che ama, lo intendano tutti: lo fanno alcuni con bieco sguardo ed altri con parole carezzevoli, il vile con un bacio, il prode con la spada!”.