Dopo 9 anni dal debutto Antropolaroid di Tindaro Granata arriva all’Off Off Theatre di Roma. Si tratta di uno spettacolo essenziale nell’allestimento, ma estremamente denso di immagini, significati e situazioni in cui un unico attore riesce ad attraversare le epoche, i generi e i sentimenti con una semplicità da lasciare gli spettatori stupefatti.
Innanzitutto la scelta del titolo: Antropolaroid. Una parola che fonde insieme due universi, due metà di una stessa anima: la cultura antica (greca principalmente) di cui la Sicilia va fiera da sempre e la cultura pop angloamericana, che ci influenza più da vicino.
La prima è metafora del contenuto, la seconda della forma. Così si manifesta Tindaro Granata nelle vesti di molti personaggi della sua famiglia, di cui racconta l’evoluzione con voci e atteggiamenti differenti che toccano il tragico e sfiorano delicatamente il comico senza dimenticare nessun angolo di ogni anima. Così egli sintetizza l’Uomo (l’Umanità intera) racchiuso nel concetto ampio e quasi scientifico di Anthropos, ma immortalato dal mezzo di riproduzione di massa: la foto e la sua evoluzione – oggi vintage e nuovamente di moda – che è la polaroid. Simbolo di un’epoca, ma anche di un modo di “vedere” la realtà. Un formato riconoscibile che racchiude, entro l’ampia cornice bianca, piccoli brandelli di umanità. Lo sapeva bene Andy Warhol che l’ha utilizzata nelle sue serie proprio per catturare l’espressione spontanea dei suoi amici o dei personaggi famosi con cui condivideva sessioni creative nella Factory.
Altrettanto bene lo sa Tindaro che fissa in scena una sua serie familiare di polaroid a testimonianza di un percorso, artistico e biografico, da cui sente di provenire e che vuole ricordare e condividere. Una lunga storia di famiglia che dai tempi dei bisnonni arriva fino a lui. Non importa se più o meno fedele all’originale, se e quanto elaborata per renderne oliati i meccanismi di montaggio e i picchi emotivi: si vede e si sente che il testo parte da una base sincera, ma che grande – e giusto – è il lavoro di sublimazione attoriale e di manipolazione registica. Il tanto decantato realismo scenico, così come il teatro narrazione, appaiono in fondo falsi storici: il lavoro di mediazione è necessario in ogni caso, anche quando si pensa che non lo sia o che non sia stato attuato. Di fatto ogni trasposizione scenica subisce una mediazione.
Nel caso di Antropolaroid ci sono pochi oggetti e un corpo d’attore che si trasforma (letteralmente nel fisico e nella voce) usando solo gli abiti che indossa, incarnando fattezze di uomini e donne, raccontando molti intrecci che si dipanano per di più di un secolo. Non è facile ritrovare e isolare i singoli personaggi in questo flusso continuo in cui i gesti e le voci mutano con il mutare degli anni e delle persone. Il tempo, infatti, è manipolato dalle azioni che, a loro volta, lo scandiscono: impiccati, ubriachi o morti ammazzati vengono rappresentati in maniera stilizzata, senza realismo, ma con un senso di profondità che penetra ancor più nella pelle e lascia percepire tutto il dolore o l’amarezza. Fra i tanti, due hanno lasciato un segno più visibile: Gnà Mena e lo stesso Tindaro.
La prima incarna il ruolo materno senza esserlo biologicamente, ma dimostrandosi poi assai più degna di quel nome. E in questo, come nello stesso nome “Mena” e nell’appellativo “Mamma” alla fine, sembra ricordare alla lontana la Filumena di De Filippo. Tuttavia questa somiglianza non è copia. Pochi come De Filippo hanno saputo trasportare alcuni temi sociali nel teatro, trattandoli secondo lo stile naturalistico della propria epoca, eppure sublimandoli in casi esemplari, eterni. Lo stesso ha compiuto Tindaro Granata con Antropolaroid che, nella parte conclusiva, arriva a raccontare la sua personale biografia, i suoi successi e i suoi fallimenti in un’ottica di riscatto e di ottimismo. Pochi come lui hanno saputo trasformare un materiale biografico, umano e mutevole, in una galleria fotografica così precisa, dettagliata ed eterna che nessuno può dimenticare.