Intenso, feroce, scrosciante come un fiume che rompe gli argini della pietas umana: così Alessandro Preziosi nell’Odore assordante del bianco, spettacolo di Stefano Massini che indaga i meandri della psiche di un “sorvegliato speciale” nel manicomio di Saint Paul: Vincent Van Gogh. Al teatro Vascello, dal 26 ottobre al 1 dicembre, è andata in scena questa antologia della mente di un artista, ebbro della sua arte tanto da lasciarsi dilaniare, capace di domare e farsi domare, in perenne balia tra fervore allucinatorio e spregio di una banale realtà.
Perché Vincent si rifugia nei suoi quadri, le sue tele sono un guest pass per un mondo di cui si sente ospite inatteso, sgradito a se stesso e come potrebbe essere altrimenti per un artista i cui colori superbi dell’anima sfuggono a qualsiasi scenario prosaicamente ordinario.
Eppure Vincent ora è solo, in quello che lui chiama il “castello bianco”, il manicomio di Saint Paul, dove il bianco è “assordante” aggredendo, con il suo pallore, i confini delle cose e la libertà umana di esprimersi attraverso la creatività.
Per Van Gogh questa stanza senza confini è il carcere che mostra il suo volto più metafisico, più impalpabile e dunque più invalicabile.
Troviamo dunque Vincent in un stanza bianca mentre, nella sua solitudine, irrompe il fratello Theo che prova a strapparlo alla disperazione in un dialogo amarcord, tra ricordi dell’infanzia, rinnovato genio artistico e speranza di guarigione: Vincent, infatti, è rinchiuso nel manicomio di Saint Paul perché le sue allucinazioni, il suo distacco dalla realtà, sono diventati troppo esacerbati e, come lui stesso afferma, non c’è più alcun filtro razionale tra sé e le cose. Come da quando si impara l’alfabeto non ci si può più sottrarre alla decodifica immediata di una frase, così Van Gogh non riesce, quando vede qualcosa, a sottrarsi al dubbio che non sia reale, tanto che dubita che lo stesso Theo sia lì presente, in carne ed ossa, e non una sua allucinazione.
Quel che conta è, però, quanto il dialogo con il fratello ci restituisca un Vincent lucido nella sua accesa disperazione rabbiosa con la quale abiura quella messinscena dolente dell’ospedale psichiatrico: un luogo che reputa abietto prima di ogni cosa per la sua pretesa liberticida di vietare pennelli, tela ma in fondo anche i semplici colori ad un artista.
Uno straordinario Alessandro Preziosi che, nella sua inquietudine insolitamente lucida e tagliente, rivela le fragili tempeste introspettive di un artista che si vede sempre al di qua di un recinto umano tanto quanto ospedaliero: l’ospedale di Saint Paul è il recinto tra sé e le cose, le persone percepite come volgo informe ma al contempo minaccioso.
Eppure, la vita è quella che lui ama come ne ama i feroci colori ai quali non può sottrarre la sua tela la cui pittura lo sovrasta come fossero i colori stessi a dominarlo in una vorticosa danza.
Il vortice è un tema dominante nelle tele di Van Gogh e, anche in questa piece teatrale, l’eccezionalità di Alessandro Preziosi sta nel saper inscenare quel vortice mentale di un artista dalla forza inesauribile che si identifica nella sua ribellione e che induce a riflettere tutti sulla lotta tra individualità espressiva e logiche sociali convenzionali: l’artista, in questo, è l’avanguardia, è colui che spinge sempre più in là il discorso su ciò che è socialmente accettabile. Ed in questa lotta per la libertà rinchiuderlo in un manicomio significa annientare la nostra aspirazione alla libertà come società intera.