Ieri sera al RIFF, per la sezione New Frontier, è stato presentato il film indipendente Tempo Girl, girato dal regista svizzero Dominik Locher.
La storia di una ragazza identificata come l’icona di una generazione, o meglio, della cosiddetta tendenza di costume “hipster”. Quella cerchia di più o meno giovani, legati a feticci brandizzati e loghi distintivi (di cui vi è ampia presenza in questo film a basso costo e che non hanno pertanto rappresentato degli sponsor, su ammissione dello stesso regista), primo esempio su tutti la famosa mela (che oggi Eva, nel paradiso terrestre, dovrebbe afferrare attraverso il tocco di un display), a rituali di un divertimento codificato – con picchi di trasgressione ai limiti del lecito – ai coffee bar, alle discoteche radical-chic fino alle aspirazioni, col naso e di carriera. Velleità da scrittrice, nello specifico, sullo sfondo della multiculturale, stimolante, underground Berlino.
La teutonica Dominique Piepermann (interpretata da Florentine Krafft), corto caschetto nero, frangia ed espressione vispa e inquieta alla Louise Brooks, è solo il profilo replicabile di una ragazza di questi tempi con molti cliché, non certo rappresentativa della totalità di coetanei che avvertono più forte la crisi imposta dal mondo dei politicanti.
Lei che all’inizio sembra non avere grandi difficoltà a mantenere i suoi standard sociali e trascrive con straniamento ciò che accade attorno, deve fare i conti con i moti rivoluzionari che le si agitano dentro, con le sue altalene emozionali, diverse dai saliscendi del mercato internazionale, ma altrettanto incisive per il suo futuro. Simulando un nuovo gioco, funzionale allo sviluppo del suo romanzo, stavolta “autentico” su richiesta del suo editore, decide di abbracciare una vita più elementare, di isolarsi in un “sogno hippie”. Coinvolge un ragazzotto turco (l’attore José Barros) – etnia non casuale, considerata la massiccia integrazione nella capitale tedesca – più genuino dei kebab che vende e insieme noleggiano una stazione di servizio tra le montagne delle Alpi svizzere, bruciando il loro amore. Ma come tutte le campane di vetro idilliache, sono destinate a sgretolarsi sotto il peso della realtà, delle responsabilità.
Il film è numerato in capitoli, una sorta di libro visivo, predomina il colore rosa confetto della copertina con ciascun sottotitolo, per poi virare al rosso acceso in quelli finali. La pellicola scolora poi al bianco e nero nelle scene topiche, rafforzate dai movimenti a rallentatore della macchina da presa. Dichiarazioni d’amore in chiave rap e citazioni al cinema di Quentin Tarantino e a Pulp Fiction completano il tentativo di accattivare lo spettatore, di coinvolgerlo, facendogli provare tenerezza o avversione per questa “Tempo Girl”, vicina e lontana a ciò che vive.
Intanto Dominique continuerà a corre, o a scappare, al ritmo delle sue cuffie high tech, creandosi una dimensione ovattata. Forse scriverà ancora, cercando o forzando nuove ispirazioni, mentre la natura, madre e matrigna, seguirà il suo inesorabile corso.