Forse molti lettori avranno pensato, leggendo il titolo, che a morire sia stato il Tarantino sbagliato. C’è chi ne sarà deluso e chi griderà alla fake news. Eppure non si tratta di un errore di informazione. Il protagonista di questo “saluto” non è il Quentin, infatti, regista di film cult come Kill Bill o Pulp Fiction, bensì un drammaturgo che negli ultimi vent’anni ha regalato il meglio di sé al teatro: Antonio Tarantino.
Fin dai primi anni 90, il sostegno delle edizioni Ubulibri, grazie all’interesse del critico Franco Quadri, e dei maggiori centri teatrali ha reso possibile alla sua scrittura mitica ed essenziale di innalzarsi a modello per le nuove generazioni, incarnando la sua vocazione militante, religiosa e sociale in allestimenti memorabili. Basterebbero i riconoscimenti ricevuti e la lunga schiera di artisti che a lui, in un modo o in un altro, è legata nel ricordo o nell’ispirazione ancora vitale.
Ma c’è in più una motivazione personale che mi spinge a scrivere di lui, pur non avendo mai avuto il piacere di conoscerlo di persona e me ne rammarico. Molto.
Il suo Stabat Mater con Piera Degli Esposti per la regia di Cherif e le scene di Pomodoro fu l’oggetto della mia prima recensione teatrale, nell’ambito di un progetto curato allora – era il 1998 – dall’Eti- Ente Teatrale Italiano al Teatro Valle. Mi ricordo ancora il foglio dattiloscritto, cioè redatto con la macchina da scrivere perché non possedevo ancora un pc, che portai con me dopo lo spettacolo. Le mie, allora, mi sembravano riflessioni talmente infantili rispetto alla scoperta che mi si era rivelata che mi vergognai persino di consegnarle alla coordinatrice.
Si tratta di un ricordo nitido, come molti altri poi nella mia vita, non tanto nei dettagli, ma nelle sensazioni. Fu l’inizio della mia relazione appassionata con questo luogo e con le sue manifestazioni. Ricordo l’odore dei palchetti a cui ci davano accesso gratuitamente. Si stava sparsi per la sala, noi studenti, a seconda delle disponibilità di posti liberi. Ero in un palchetto in alto. Quasi centrale. E ancora mi sembra di sentire la recitazione cantilenante di Piera degli Esposti che ripeteva ossessivamente delle parole, le stesse, ma cambiate sempre un poco, come nella vita vera, quando si gioca a mascherare i propri pensieri.
MARIA, MERI, MARI’ …perché mio caro Giovanni
per aspettarti ti ho aspettato
altroché se ti ho aspettato
per favore
non dirmelo perché per aspettarti
ti ho aspettato*
Questa donna dalla voce misteriosa andava camminando per il palco avanti e indietro, da sola: rimasi ipnotizzato, senza riuscire a capire perché. Il suono si manifestava così, dando realtà e dignità al pensiero di questo autore vivente. Mi sembrava strano, ero abituato a studiare autori morti, come capita a tutti gli studenti di scuole superiori! Lo avrei ascoltato altre mille volte, ma non fu possibile. Il progetto si concluse, almeno per me. Tuttavia quella esperienza è rimasta viva e mi ha accompagnato sempre. Il senso allora mi era oscuro. Le profondità che poteva raggiungere un autore maturo erano inaccessibili a un adolescente come lo ero io allora. Con il tempo ho capito qualcosa in più.
“La scrittura per il teatro non è un esercizio di scrittura ed è per questo che i critici letterari non la tengono in considerazione. Piuttosto, è un parlare dentro di te, delle voci che poi traduci in scrittura. In questo senso è qualcosa di più e contemporaneamente qualcosa di meno della scrittura. E, una volta in scena, la scrittura drammaturgica ti restituisce molto di te stesso”. (A. Tarantino)**
Lui ci ha restituito molto di sé, evidentemente. E anche molto di noi stessi. Per questo oggi va ricordato, con commozione e stima.
*Se volete leggere un estratto di Stabat Mater ecco il link:
www.ubuperfq.it/fq/index.php/it/