A Rose in winter è il biopic di Edith Stein che fu mistica, filosofa, studiosa ebrea convertita al cattolicesimo.
Dotata di grande carattere lottò per i diritti delle donne, divenne suora carmelitana ma non riuscì a sfuggire al destino del suo popolo d’origine: la deportazione in campo di concentramento ad Auschwitz, luogo in cui morì nel 1942.
Il film, che verrà presentato all’interno della programmazione del Parma International Music Film Festival, è sceneggiato e diretto da Joshua Sinclair. Alle spalle una carriera di attore con grandi maestri del cinema, (ha recitato, tra gli altri, ne Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, L’assassinio di Trotsky di Joseph Losey, Cartesius di Roberto Rossellini) ha firmato le sceneggiature di Gigolò di David Hemmings, interpretato da David Bowie e di Lili Marleen di Rainer Werner Fassbinder, diretto Patrick Swayze nel film Jump.
Il suo libro Shaka Zulu ha venduto in tutto il mondo quattro milioni e mezzo di copie ed è stato tratto uno sceneggiato di grande successo di cui a breve verrà fatto un remake.
Vittorio Storaro firma le luci di A Rose in winter, il montaggio è di Roberto Perpignani, storico montatore dei film dei F.lli Taviani, mentre la colonna sonora è di Franco Piersanti.
Un film importante su un personaggio storico e spirituale di grande rilievo che ha dedicato la sua vita alla comprensione delle grandi domande dell’esistenza, manifestando sempre determinazione nelle sue scelte.
Perché un film su Edith Stein?
Come persona del cinema, scrittore e regista ho notato che siamo in un periodo storico in cui non è possibile fare solo film di intrattenimento, ma è importante capire come possiamo rappresentare le cose che accadono nel mondo in modo più onesto, più costruttivo per le generazioni che verranno.
Sta crescendo il razzismo, l’antisemitismo, le forme più brutte di razzismo, come se si fosse aperto da qualche parte il vaso di Pandora e sta uscendo tutto. Tutti i popoli sembrano un po’ confusi nella comprensione di quale sia il messaggio del mondo di oggi.
Volevo fare un film che toccasse l’argomento del razzismo e dell’antisemitismo, ma che avesse anche speranza.
La figura di Edith Stein secondo me raccoglie questi concetti, lei che era ebrea e anche cristiana.
Non volevo fare un documentario biografico, per cui ho fatto come con Shaka Zulu, ho letto tutto quello che c’era sull’argomento e poi ho scritto la storia.
Ancora adesso, dopo trent’anni, tutti mi dicono che quella era la vera storia di Shaka, ma non lo è, la storia l’ho tratta da tutto quello che ho capito su quel personaggio, dai racconti della gente. Ho fatto lo stesso con Edith Stein.
Nel film, attraverso l’esempio di Edith volevo anche dare una rappresentazione diversa del popolo ebreo deportato, che viene sempre visto come succube e inerme. Lei visse fino alla fine con grande determinazione anche all’interno del campo di concentramento, dimostrando che ogni giorno va vissuto con coraggio.
Ho letto che all’inizio avevi pensato a Julia Ormond come protagonista del film al posto di Zana Marjanovic.
Ho voluto Zana Marjanovic perché lei è Edith Stein!
Molto elegante, ha una sua dignità, ha vissuto la guerra a Sarajevo da bambina.
E’ vero che aveva lavorato con Angelina Jolie nel suo film Nella terra del sangue e del miele, ma è meno conosciuta. Julia Ormond era interessata ma c’era un problema con l’età. Doveva essere più giovane perché il personaggio va dai 16 anni ai 49.
Mi avevano proposto anche Natalie Portman, che è ebrea, ma se avessi utilizzato queste due attrici famose sarebbe stato diverso. Io volevo Edith, quindi ho preferito fare tabula rasa.
Nel tuo film ti affiancano con due mostri sacri: Vittorio Storaro e Roberto Perpignani…
Conosco Vittorio da trent’anni e lo amo come un fratello.
Questo film è stato girato in 40 giorni con 60 location. Si andava sul set che avevamo già le idee chiare. Non è stato tanto una scelta di luci ma di colori che a seconda delle scene rappresentavano la speranza, la gloria o la mancanza di speranza.
Roberto è amico di Vittorio, si conoscono da una vita, hanno fatto assieme Ultimo tango a Parigi, con lui ho avuto qualche difficoltà a trasmettergli l’aspetto mistico della storia.
Tutti questi professionisti vogliono il loro spazio e l’aspetto più difficile è ascoltare, perché tutti arrivano con il proprio storyboard, ma bisogna saper ascoltare. Quando arriva Vittorio sul set ha le idee chiare quindi tutto il resto della troupe deve stargli dietro.
Hai lavorato con David Bowie e Patrick Swayze. Un ricordo di questi due attori?
Due momenti diversi della mia vita.
Con David ho curato la sceneggiatura di Gigolò. Ero molto giovane ed ero nuovo al mondo dei grandi artisti di quel periodo, non ero un grande fan della sua musica ma ero un suo fan, perché aveva la capacità di trasformarsi tutti i giorni, era un genio.
Sono stato due mesi con lui sul set. Tutto quello che lui faceva era favoloso. Non prendeva la sua vita sul serio, era al di là del bene e del male. Per lui era tutto possibile. E’ molto difficile organizzare la vita credendo che tutto sia possibile, perché c’è il rischio di disperdersi.
Ho lavorato anche con Grace Jones in Shaka Zulu, ma Grace era molto più terra terra. Quando la vedi sul palcoscenico sembra assurda ma fa parte del suo personaggio, nella vita di tutti giorni invece è una vera donna di casa, cucina, fa tutto, sempre sorridente.
Con David non sapevi dove finiva il personaggio e dove iniziava l’uomo. Così c’è il rischio di diventare succube di se stessi. Era un genio e il pericolo è essere vittime del proprio genio.
Con Patrick ho lavorato molto bene, eravamo come fratelli sul set. Un uomo di grande empatia.