Le storie danno volto e corpo alle nostre idee sul mondo: sulle ali di un drago o la sella di un levriero cavalleresco possono viaggiare ideali e credenze, a popolare l’immaginario culturale di un popolo. Fin qui tutto bene e tutto vero finché non arriva Calvino a rovesciare gli schemi, dando vita ad una letteratura dinamica, metanarrativa dove l’azione si fonde con la narrazione.
Nel Cavaliere inesistente, adattamento della terza trilogia araldica di Italo Calvino, in scena al teatro India fino al 17 dicembre, la fede religiosa e politica non trova cavalieri a rappresentarla nelle loro prodezze, ma viaggia nell’armatura vuota del più perfetto dei cavalieri. Peccato che sia inesistente.
Argilulfo non esiste ma questo non significa che non sia più presente a sé stesso di tutti i suoi compagni carolingi che, al contrario di lui, possiedono un corpo umano con tutte le sue passioni e le sue debolezze. La sua fervida volontà e vocazione cavalleresca sono più forti e reali di quelle di tutti gli altri ma l’assenza di un corpo sembra più denunciare, per mano di Calvino, l’inconsistenza delle cause apparentemente nobili e utopistiche per cui i cavalieri combattono. La regia di Tommaso Capodanno affida il ruolo di Argilulfo a un puppet straniante e, a quattro imperdibili voci e gesta di donne, le trame dei mitici paladini.
Siamo all’epoca del Sacro Romano Impero, raccontato nella chanson de geste che ha esaltato le vicende di Carlo Magno e i suoi nobili paladini del regno, che si battevano contro i Saraceni, brandendo sulla punta della spada una muscolare cristianità. Nel romanzo di Calvino l’ideale di una patria fondata sull’incrollabile fede cristiana e difesa con il sangue appare effimero, impotente e la sua inafferrabilità è ben rappresentata dall’Astolfo di calviniana maniera: nell’investitura di uno dei più grandi scrittori del Novecento è Argilulfo, un cavaliere senza corpo, senza braccia, senza carne e per questo anche senza sogni. Sì, perché questa condizione di assoluta purezza e incorruttibilità, data dall’a-carnalità, lo rende un’armatura vuota, al servizio di un esercito che, più che in nobili gesta, si consuma in insensate pratiche burocratiche. E a fine giornata non può neanche distendere un corpo che non c’è su un giaciglio notturno, per sognare sotto le stelle. Nella piece, adattamento di Matilde Accardi, il racconto si snoda attraverso la messa in scena rocambolesca di quattro attrici poliedriche, capaci, nell’alternanza vorticosa di registri, di rendere solennità e humour, passando dalla soavità del canto ad una genuina improvvisazione gergale.
Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane impersonano ora Suor Teodora, la voce narrante, ora eroine ed eroi che, più che cavalieri senza macchia e senza paura, sembrano vittime dei loro stessi a volte arditi a volte futili gesti: tontoloni di brigata creano peripezie assurde e fantasiose. Tra pasticci d’amore e guerra più incidentali che frutto di un disegno epico, si annidano i pensieri dell’autore che affida alla follia la lucidità: una trama di riflessioni sull’impotenza della guerra, intesa come la più salvifica azione umana nei romanzi cavallereschi, si fa qui un gioco illusionistico, paralisi della storia che si ripete sempre uguale.
Se non fosse che la magia della letteratura interviene a sovvertire, a cambiare il finale, ad immaginare e co- creare un futuro pieno di possibilità.