La scrittrice Francesca Mazzotta si racconta tra il suo ultimo libro ‘Per non sparire’ e la sua prossima apparizione al Trieste Slam Fest del 29 settembre
In un soleggiato pomeriggio settembrino faccio la conoscenza di Francesca Mazzotta, letterata toscana, poeta e scrittrice con un dottorato sulla poesia del Novecento. Mi confida che preferisce definirsi scrittrice piuttosto che poeta, perché per lei la scrittura poetica è un precipitato di una scrittura molto varia.
Purtroppo siamo costrette a incontrarci in videochiamata perché ci troviamo in città diverse. Tuttavia, la solarità e la passione di Francesca non conoscono confini, neanche quelli geografici. Abbiamo molte cose di cui parlare. Infatti, ci incontriamo in procinto del Trieste Slam Fest, una serie di appuntamenti mensili di Poetry Slam organizzati dall’associazione culturale Parole contro vento, dall’associazione Babau di Carlo Selan e da Theo Verdiani. E proprio al Trieste Slam Fest, la Mazzotta presenzierà come ospite speciale il 29 settembre. Ma le sorprese non finiscono qui. Oltre a esibirsi in una performance durante la serata, l’autrice parlerà del suo ultimo libro di poesie ‘Per non sparire’, pubblicato nel 2023 con la casa editrice Industria & Letteratura. Ma prima di tutto ciò, ci tuffiamo insieme nella dolce corrente dei ricordi.
Iniziamo con le domande di rito, come ti sei avvicinata alla poesia?
Bellissima domanda. All’inizio mi sono avvicinata alla poesia tramite l’ascolto in una sorta di assorbimento acustico. Avevo un nonno molto colto, nonno Vittorio. In realtà era un uomo di legge, ma scriveva poesie. Quando io e i miei fratelli eravamo piccoli ci imponeva “un’ora di vinile“. Di solito era Gassman che leggeva D’Annunzio, uno dei preferiti del nonno, o Carducci.
Infatti tu affermi che alla base del processo creativo c’è l’ascolto e per questo serve una natura quieta e tanta lentezza. In una società che va sempre più veloce, com’è possibile raggiungere questa lentezza?
Bella domanda. Per me la lentezza oggi è diventata un modo di ambientarmi in un sistema molto fitto, a livello di parole e toni, che siano toni vocali o sonorità non solo verbali, quindi appartenenti alla natura. Tuttavia, è faticosissimo proprio perché è diventato impossibile raggiungere questa lentezza, a meno che non ci si isoli da una rete di rapporti sociali e pseudosociali. Soprattutto in Italia, ci troviamo in un momento molto critico per gli umanisti, gli scrittori e i poeti. Oggi è quasi impossibile per loro vivere in modo sano. Magari è una visione esagerata, ma personalmente è quella in cui mi sto trovando adesso. La lentezza è diventata un tentativo di mediare questo caos nel modo meno traumatico possibile.
Quindi attraverso la lentezza ci si può salvare?
Beh io sono molto ottimista rispetto a chi ha facoltà creative o proattive, come si suol dire. L’essere “proattivo” ti porta a saper convertire in una bella forma una lacerazione che altrimenti libererebbe solo dolore. Quindi da un lato sono fiduciosa nell’arte, dall’altro lato credo che la situazione che stiamo vivendo sia particolarmente ostruente per gli artisti e gli scrittori. Il punto è questo, la lentezza è difficile.
Per l’appunto, in un articolo per 9colonne parli dei problemi che affliggono gli artisti e della categoria del sognatore, a volte guardata con sospetto. Secondo te l’artista e il poeta devono essere sognatori?
Assolutamente sì, anche se non so stabilire in che misura, se piccola o vasta. Per me il sogno è fondamentale per sopravvivere perché imprime un moto sensato alla realtà. Oggi intendo l’onirico come, per ripescare Montale, un aggiramento degli “scorni di chi crede che la realtà sia solo ciò che si vede”. Il sogno può riorientare la realtà, ricombinarla a livello di sguardo e di scrittura prefisica, in un momento che precede la scrittura nero su bianco. Per me questa rimodulazione è un modo di sognare ed è la sostanza fondamentale della scrittura. Tuttavia, non è sempre stato così, questo discorso è relativo ad oggi, al mio ultimo libro. Nei due libri precedenti il sogno era un’altra cosa. Nel primo (Reduci o redenti) l’onirico era una speranza di buona memoria, di trattenere il bene dell’esperienza.
Nel secondo (Gli eroi sono partiti) il sogno è un distacco da una faglia. Si muove nella traiettoria di un’evaporazione, quasi fosse una sostanza liquida che sale dalla realtà.
Nel terzo (Per non sparire) il sogno è una composizione cognitiva e sonora di una realtà sgretolata, disturbante a livello di suono, carica di tonalità e vocalità fuori tempo e fuori tono.
Si dice che ci sono più poeti che lettori di poesia, ma tu affermi che la poesia non si può insegnare. Suggerisci, invece, di allenare lo sguardo. Quindi credi che attraverso i laboratori di poesia e il Trieste Slam Fest si possa dare nuovo slancio alla poesia?
Assolutamente sì. Secondo me, condividere la poesia è essenziale per trasmettere energie vitali. La poesia è viva, più viva della poesia non c’è niente. Anzi, forse è l’unico modo per riattivare quest’arte. Purtroppo abbiamo vissuto una storia di censure di diverso tipo, dalle censure vere, politiche, alle autocensure, a quelle di alcuni piccoli sistemi, dal famigliare al microsociale. Questa componente vitale che è la parola vuole comunicare e risvegliare, e questo sarebbe un bel momento per una forma d’arte più teatrale, collettiva.
La risposta sta quindi nella condivisione?
Sì, serve una forma che vada dall’uno a molti ma in modo partecipativo, perché una direzione univoca o biunivoca nella poesia non regge più. Questo è fondamentale nel mio nuovo interesse per la scrittura. Non credo scriverò altri libri di poesia per un po’ e mi piacerebbe darmi alla prosa per teatro e cinema. Adesso la poesia è da riscrivere oralmente o da reinterpretare, quindi da rivocalizzare in modo autentico e forte.
Per l’appunto, il tuo nuovo libro nasce come prosa teatrale, poi scombinata in un libro di poesie. Come mai ti sei avvicinata al teatro?
Il libro è nato durante la pandemia come una drammaturgia, cioè uno scritto per il teatro, in 3 atti. Il primo atto è il libro che ho pubblicato, gli altri due sono stati scartati. Il primo atto prevedeva dei frammenti, ognuno intitolato come un personaggio. E i personaggi sono ancora visibili nel libro, ossia memoria, realtà, desiderio e profezia. Il secondo atto era un dialogo tra di loro. Da qui emergeva una trama precisa in cui Realtà si innamorava di Incubo, un riflesso del momento pandemico. Il terzo atto era il monologo di Realtà. Alla fine invece, per varie ragioni, ne è scaturito questo libro di poesia.
Perché hai scelto queste entità e perché sono figlie di Tempo?
La parola entità è giusta perché questi quattro personaggi sono quattro modi di essere nel tempo, ovvero quattro tempi verbali, quattro azioni: memoria= ricordare, desiderio= sospirare, realtà= esserci, profezia= sperare. Il senso di queste entità, nonché l’obiettivo del libro, è tracciare una convivenza possibile tra questi quattro modi di essere. Intendo questi personaggi come quattro modi di vivere su cui lavorare individualmente e collettivamente per arrivare a un’armonia. Il Tempo è esterno a tutto ciò, infatti è il padre, ma non nel senso di paternità maschile. Tempo è una luce, forse una forma di divinità ma più che divino è una veglia. È un guardiano che circonda i quattro personaggi, li protegge e ne garantisce il moto reciproco.
Parlami un po’ del titolo ‘Per non sparire’.
È un titolo nascondiglio ed è un titolo affermativo. Quello che ho nascosto è la negazione del ‘non’ ed è affermativo perché se dovessimo trovare un sinonimo sarebbe ‘per tornare dentro di sé, in uno stato di quiete’. Se dovessi figurarmi questo titolo come un’immagine penserei ad una nuvola, qualcosa di bianco e di cotone, che renda meno contundente la negazione del ‘non’. Un ‘non’ che potrebbe spaventare, ma che comunque fa parte del titolo.
Nelle Profezie esce il tuo ottimismo. Compare il tema ricorrente della luce, che quindi si contrappone ad un buio. Un buio autobiografico o universale?
Profezia in realtà è Memoria e quindi parla di cose già successe all’io scrivente. Ad esempio nella Profezia 1, la luce di cui parlo è quella che ho già trovato e scelto per non sparire. La luce per me è un focus di torsione dello sguardo ed è centrale nel libro. Questa dialettica tra luminosità e tenebra si riferisce anche al blackout energetico e abbastanza deleterio che viviamo oggi globalmente. Forse si dovrebbe parlare più di blackout che di buio, che non esiste più dato che siamo carichi di energia elettrica e digitale, o anche detto shitstorm, come direbbe il filosofo Han.
Quindi pensi che oggi ci sia un blackout a livello globale?
Oggi c’è di continuo un blackout di energie del corpo. Potremmo distinguere due piani di questo blackout, un piano compositivo del poeta e un piano ambientale. Per piano compositivo intendo il momento che precede lo scrivere e poi lo scrivere in sé. È normale che nella scrittura ci si spenga e ci si riaccenda continuamente, perché se non ci spegniamo in modo massiccio e riposante non riusciamo poi a recuperare le energie per riprendere a scrivere. Quindi blackout sul piano compositivo credo sia declinabile in silenzio compositivo. Invece, il blackout dell’ambiente è un discorso molto meno poetico e molto più tangibile, e quindi pericoloso. È ciò che porta ad allontanarci dalla condivisione partecipata e fisica (come quella che invece ci sarà al Trieste Slam Fest) e ci porta ad eclissarci nei vari dispositivi digitali.
Continuando a parlare di tecnologia, tu hai scritto alcune poesie usando Gpt-2. Come funziona questa collaborazione?
Prima di tutto, voglio chiarire che Gpt-2 non è ChatGPT. Gpt-2 è un Language Model, un “antenato” di ChatGPT. Avevo composto i testi a settembre dell’anno scorso, quindi prima che uscisse l’app, grazie a un amico che fa il data scientist e che lavora con l’intelligenza artificiale. Parlando con lui mi è nata questa curiosità e per un progetto di ricerca avevo creato un libro intero di poesie con Gpt-2. La presenza di questo modello di linguaggio nel libro è un’inclusione critica, cioè è un far vedere cosa stanno diventando il linguaggio e la scrittura, in modo sempre più integrato e inconscio per la comunità. In questi programmi inserisci un input, una riga o un testo qualsiasi, e poi premi invio. Il programma continua da sé fino ad un certo punto, indicato dal segno paragrafematico, una barra verticale che ho trattenuto nel libro per veicolare questo senso di sospensione. Ho deciso di trattenere 6 testi tra quelli che avevo creato, senza mai dichiarare quali fossero gli input da cui sono nati. Qui, però, ve ne posso rivelare uno.
input: Abbiamo delle meduse ferite. Senza coscienza
poesia che ne deriva:
GPT-2. III
Abbiamo delle meduse ferite.
Senza coscienza possiamo vedere.
Ma che sta succedendo? Niente?
No, solo una manciata di gelatine
che, c’è da supporre,
non sono meduse: sono
troppo piccole e troppo rigide.
Semplicemente|
Nella prefazione, Milo De Angelis nota la presenza della natura nelle tue poesie. Quanto è importante la natura per te?
Tanto. In questo libro tantissimo, nella mia vita troppo poco. Secondo me, la natura ha un ruolo orientante, mi dà un orientamento nel libro e nella vita. La natura e le creature presenti nell’ultimo libro simboleggiano una specie da salvare perché non scompaia (una specie forse poetica, extraverbale oppure di “affini”). Negli altri libri la natura aveva un ruolo diverso.
Nel primo libro c’era una natura lacustre legata ai luoghi famigliari come la mia città natale, Firenze, e ai luoghi dell’esperienza, una clinica per DCA (disturbi del comportamento alimentare). È una natura che retrospettivamente definirei protetta perché chiudeva e quindi tutelava me e le altre pazienti. In quel caso era una natura ostruita e filtrata dal recinto attraverso cui si vedeva il lago.
Nel secondo libro tutto è nascosto. È una natura urbana, vista per scorci di bellezza concessi.
Un’ultima domanda per salutarci su una nota di ottimismo. Nella Profezia 1 si parla di “risvegliarsi più vivi”, hai un consiglio su come risvegliarsi più vivi?
Per risvegliarsi più vivi, bisogna ripetersi alcune frasi positive in modo terapeutico tutti i giorni. (esempio: “sono un grande”, “so ancora quello che voglio e vorrei per me oggi”) Così questa speranza, questo ottimismo, diventano pratiche quotidiane. È importante che ce ne convinciamo e ne convinciamo gli altri, perché la speranza prima è individuale ma alla fine non esiste se non ha un riscontro collettivo o di coppia, di famiglia o di comunità. Finisce per diventare un girare su sé stessi e alla prima difficoltà ci si attorciglia e ingarbuglia. Quindi bisogna ripetere e ripetersi fino alla noia frasi o parole che hanno avuto un ruolo positivo, che lo hanno o che lo possono avere.