Annibale Ruccello è senza dubbio divenuto un classico del teatro napoletano. Forse non avrebbe voluto esserlo, ma la sua morte lo ha destinato a questo. Lo confermano le attenzioni dedicategli da attori e registi soprattutto in questi ultimi vent’anni anni e i numerosi allestimenti che insistono in un percorso di interpolazione e trasformazione tipico, appunto, di autori considerati “classici”.
Lo stesso è capitato a Viviani e a Eduardo. Non stupisce, quindi, che il suo messaggio drammaturgico venga trasformato, come accade in questo spettacolo. Jennifer – Il Sogno, infatti, segue il medesimo andamento drammatico de Le cinque rose di Jennifer, il testo scritto e interpretato dallo stesso Ruccello nel 1980, ma se ne discosta in alcuni importanti aspetti, come ad esempio il rapporto fra testo e musiche. Anche in questa versione si tratta di una storia complessa di solitudine, emarginazione, illusione. Nulla però resta dell’originale ambientazione anni 70 in un decadente quartiere per “travestiti”.
L’idea è più quella di un “gioco” di ruolo che l’interprete cuce su di sé e sui suoi talenti istrionici. Il motore drammatico di Jennifer è il desiderio di un amore, che nell’originale è violento e spaventosamente ossessivo, qui assume i tratti di una passioncella scherzosa e temporanea. Franco è l’uomo inesistente che Jennifer ha conosciuto – forse – in una notte fumosa e allucinata e di cui si è innamorata ai limiti della follia. Franco è forse un ingegnere, chi può saperlo? Nessuno. Così come nessuno sembra conoscerlo. Franco è un nome, non ha neppure un volto. Neppure Jennifer che compatta la sua esistenza attorno al suo ritorno sembra sapere bene chi sia.
Una presenza assente a cui aggrapparsi che, forse, è l’essenza stessa della protagonista in transito da una identità a un’altra. Franco potrebbe essere Jennifer prima di scegliere una nuova identità. Ma questo spiraglio non si palesa mai in questo allestimento. Peccato: la grande polemica identitaria che smuove la comunità LGBT+ avrebbe potuto trovare una nuova icona. L’attesa, dunque, che resta il centro dell’evoluzione emotiva di Jennifer, volente o nolente espressione della fluidità di genere ante litteram, come molti altri personaggi del teatro e del cinema di quegli anni, è scandita dalle telefonate e dalle canzoni.
Telefonate mai destinate al giusto interlocutore, ma comicamente arrangiate senza far mai trapelare, fra uno squillo e l’altro, la profonda incomunicabilità che oggi ci contraddistingue. Le canzoni che, come anticipato, sono solo accompagnamento, cornice, supporto, senza mai trasformarsi in grido armonico del dramma interiore di Jennifer, come concepito da Ruccello.
Un solo incontro reale interrompe questo stato fisico ed emotivo di attesa logorante: quello con una sorta di alter ego (a volte maschile a volte femminile, dipende dalle scelte registiche: in questo caso chiaramente femminile) che già dal nome – Anna – sembra rappresentare lo specchio della disperazione e della follia di Jennifer stessa. Un incontro che però, almeno qui, sembra prolungare l’agonia drammatica, senza fornirle un adeguato contrappeso. Antonello De Rosa fa ogni sforzo per raccogliere sapientemente questo complesso materiale emotivo e trasformarlo in un delirio monologico, a tratti troppo comico, a tratti esasperatamente tragico, ma certo iconograficamente contemporaneo.
La sua operazione scenica è concentrata soprattutto attorno alla sua figura, alla sua Jennifer: toglie i riferimenti naturalistici della preparazione della cena per Franco, elimina le canzoni che Ruccello aveva originariamente concepito come parte della drammaturgia. Inoltre concentra su di sé costantemente l’attenzione del pubblico anche quando è in scena con le altre due attrici che lo accompagnano: Caterina Ianni e Marianna Avallone. Una troppo attenta a incarnare una sorta di meccanismo a orologeria, l’altra ancora immatura per il complicato ruolo di Anna che, seppur adattato, mostra tutte le asperità della scrittura psicologicamente oppressiva di Ruccello.
De Rosa compie una operazione a tratti comprensibile – l’attualizzazione di Jennifer – a tratti biasimevole – il tradimento degli intenti originali del drammaturgo – e tuttavia il suo studio riesce a farsi spazio fra le versioni più o meno note, costituendo forse un adattamento in linea con i tempi attuali. Infatti la sua Jennifer è più divertente e meno drammatica, più leggera e meno struggente, dai tratti più maschili che femminili, ma sempre in bilico fra i due poli, sanciti da una parte dall’assenza della parrucca (eppure il gesto scenico sembrava suggerirla!) e dall’altra dall’utilizzo sensuale degli splendidi e seducenti abiti di Liana Mazza. Barocco e lussureggiante appare invece il tavolo di Jennifer, a fronte di un allestimento essenziale e – a tratti – castigato che la regia ha saputo movimentare ancora meno. Grande errore: la pistola alla tempia. La canna della pistola deve stare in bocca, con evidenti riferimenti sessuali oltreché malavitosi.
JENNIFER – IL SOGNO
Tratto da Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello
diretto ed interpretato da
Antonello De Rosa
Con Caterina Ianni e Marianna Avallone
Costumi Liana Mazza
Organizzazione Pasquale Petrosino
Assistente Rosanna De Bonis
Materiale fotografico fornito e autorizzato dall’ufficio stampa competente