Dal 12 al 13 novembre gli Oblivion portano “Oblivion Rhapsody” sul palco del teatro Rossetti di Trieste
Si dice di loro che sono i cinque sensi della satira musicale, che sono uno Spotify vivente, che sono i cinque gradi di separazione fra i Queen e Gianni Morandi.
Sono Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli: gli Oblivion.
La loro storia di successi in tournée italiane è cominciata 10 anni fa e gli Oblivion hanno deciso di festeggiare come solo loro sanno fare. È così che al Rossetti sbarca “Oblivion Rhapsody”, l’eccezionale versione acustica della loro opera omnia. Spettacolo di debutto della nuova stagione del “Teatro Brillante” del Rossetti, “Oblivion Rhapsody” ripaga tutte le aspettative.
In una giostra dal ritmo scatenato, i cinque artisti riproducono le loro performance più amate, cantano, suonano e non solo.
Mostri sacri della letteratura quali Dante, Manzoni, Shakespeare vengono parodizzati, strizzati in pochi minuti e raccontati sulle note di grandi successi italiani; da Mina a Baglioni a Tiziano Ferro.
E così i Promessi Sposi diventano un’opera pop.
Poi Leopardi e il suo ermo colle vengono convertiti in un trailer cinematografico e testi di canzoni famosissime vengono decantati con voce nasale come fossero notizie al telegiornale.
Tra canzoni, mimi e imitazioni, gli Oblivion danno sfogo a una comicità dissacrante, spietata, fresca e a volte demenziale, ma evidentemente sorretta da una solida architettura.
Si nota quindi come dietro tutta la loro splendida leggerezza, il non prendersi mai troppo sul serio, ci sia uno studio rigoroso dei loro spettacoli.
È evidente come il successo della loro comicità sia dovuto anche a un’approfondita conoscenza della storia e della letteratura, così come della cultura popolare, e a ritmi comici calcolati alla perfezione; oltre che all’innegabile carisma dei cinque.
Con l’armonia del Quartetto Cetra e l’ironia dei Monty Python, solo due dei loro maestri, i nostri eclettici performer dimostrano uno humor sottile e intelligente. Sanno toccare temi spinosi, tra covid e discriminazioni, senza corrompere il flusso spontaneo dei loro sketch. Celebrano quindi una satira di qualità e al suo massimo livello. E lasciano anche emergere la loro vasta e profonda cultura musicale.
Difatti, oltre ad avere la vena comica di un Walter Chiari moltiplicato per cinque, gli Oblivion sono anche cantanti e musicisti dal talento eclettico. Sviscerano un repertorio vastissimo, da Battiato ai Lunapop, fino ad arrivare a rappare la vita di Gesù e a fare beatboxing. Qui una nota di merito va a Lorenzo Scuda per aver accompagnato l’intero spettacolo con la sua fedele chitarra.
Inoltre, da lodare è anche la sapiente regia di Giorgio Gallione, il quale, con l’abilità di un domatore di leoni, è riuscito a gestire i ritmi serrati dello spettacolo.
Alla fine il pubblico è in delirio e non dà tregua al quintetto fino a che non ottiene il bis. Gli Oblivion dimostrano quindi anche un’ampia conoscenza della musica internazionale con l’inedita History of Rock. Dagli anni 50 fino a Jimi Hendrix, i cinque usano unicamente le loro voci per cantare e per riprodurre gli strumenti, dando ancora una volta prova del loro talento musicale.
Con le loro performance eclettiche, dinamiche e frenetiche, gli Oblivion incarnano quindi la parte migliore dello spirito artistico del terzo millennio.
È bello finire con le parole del regista Gallione che riassumono splendidamente “Oblivion Rhapsody”, così come ogni altro lavoro “obliviano”.
“Riguardandoli ripenso sempre ai ‘valori’ che Calvino suggerisce come fondamentali nelle sue Lezioni Americane: leggerezza, rapidità, esattezza, molteplicità, visibilità. E tanto serio divertimento. Perché senza gioia le parole, e le musiche, hanno i piedi di piombo.”