Le prénom. Adolphe sotterrerà Adolf.
Commedia francese dai dialoghi travolgenti e inediti.
Assolutamente da vedere.
Cena tra amici, tradotto dal francese Le prénom.
Qualche mese fa cercando tra i film proiettati in città ne ho scelto uno di cui i media parlavano bene, una commedia francese. Non mi ricordavo più il sapore di Amélie, Le petit Nicolas, Les intouchables, e sono andata al cinema senza troppe pretese.
Recentemente sono tornata a vedere il film in versione originale.
Le prénom. Un pugno di gioia, di pura sintesi di risa e senso intellettuale.
Si tratta di un film uscito il 25 aprile 2012 in Francia, di Matthieu Delaporte e Alexandre de la Patellière tratto dalla pièce teatrale scritta dagli stessi registi “Le prénom”.
La storia, l’intreccio è molto semplice: Elisabeth e Pierre, coppia di insegnanti, invitano a cena Vincent, fratello di Elisabeth, e la sua compagna Anna, insieme a Claude, amico d’infanzia. La coppia, Claude e Vincent sono uniti da sempre. L’occasione della cena dà vita ad una serie di dialoghi comici e dissacranti.
Centrali sono le parole: i dialoghi determinano i ruoli, influenzano il pubblico, lo attraggono a sé, lo distolgono dall’essere presente a sé stesso. L’apparente scioltezza, corsa ad ostacoli di una chiacchierata tra amici, mossa da tensioni e da centri d’interesse in movimento costante, avviene secondo i ritmi di una sapiente misura drammaturgica. Solo alcuni dei nodi di riflessione “filosofica” annunciati, vengono rivelati in modo esplicito. Questa sembra essere la grandezza di un film che non si pone mai come riflessivo, ma piuttosto come puro divenire, puro evento: le citazioni letterario-filosofiche sono emanazione dell’evento, mai supporto didascalico, mai straniere.
L’inizio del film è intrigante: è già azione. Annuncia la totale assenza di staticità dell’intero film. Una voce fuori campo commenta il percorso di un ragazzo in motorino conferendo la leggerezza necessaria agli spettatori per volare altrove, per muoversi oltre il reticolo della quotidianità urbana.
Ogni via di Parigi attraversata dalla moto è chiamata secondo il nome di un santo o di un fisico, ognuno dei quali è morto in modo truce o semplicemente in solitudine, come ci ricorda la voce attraverso una carrellata di immagini ironicamente didascaliche. Ecco che emerge un meraviglioso effetto comico tra l’ignaro, forse consueto viaggio del motorino e le prove di morte per cui sono ricordati i personaggi delle vie. Il nome qui è riferimento, segno, figura, rappresentazione-simbolo di un passato storico colletivo, immortalazione di eroi, tomba di azioni, simbolo della cultura che trova valore nella storia. Un’anticipazione dei discorsi che seguiranno tra i commensali.
Il motorino finalmente si ferma e il conducente sale un’elegante scala condominiale. Il protagonista dell’inizio si svela essere un pony-pizza. Suona il campanello della casa. Apre la porta un uomo di mezza età. Il prezzo delle pizze suscita l’indignazione e uno sproloquio da parte dell’uomo. Si scopre, all’arrivo della moglie, che l’uomo non era il destinatario delle pizze e il suo lamentarsi assume la qualità di un brontolìo consueto e per questo comico.
Quest’introduzione termina. La coppia viene presentata. Lui è professore alla Sorbona: ecco che inizia una sorta di descrizione/parodia del tipo “normaliano” che insegna in un luogo di prestigio al vertice delle gerarchie accademiche in Francia, l’Olimpo dei ricercatori, simbolo di cultura, storia, tradizione, rispettabilità. Per di più insegna letteratura francese e pubblica per Vrin. Lei invece insegna in una scuola media di periferia, contenitore di pregio socialmente inferiore, forse annullato dalla figura del marito. Ecco che si apre a noi uno scenario molto conosciuto, molto frequentato in Francia, e molto probabilmente anche altrove. Una cultura protetta, ambita perché esercitata in un paese in cui ha ancora valore. La donna, come alcune altre insegnanti, vive da protagonista la necessità di un cambiamento sociale, nonostante gli ostacoli delle istituzioni statali. E’ un’insegnante in lotta contro il degrado della scuola, nel tentativo di salvaguardare ogni giorno, grazie alla propria attività, il ruolo dell’educazione nella vita dei ragazzi, cercando sempre di valutare la crescita degli allievi.
La casa della coppia ci viene raccontata come un’abitazione di persone colte “di sinistra” (come viene detto più tardi da Vincent), colma di libri, non ordinata, molto personalizzata, mai banale, mai scontata, con poster di conferenze del marito, arredata in modo raffinato e ricca di foto sparse, soprattutto di ricordi.
Stasera questa casa accoglierà ospiti: questo il motore della vicenda. Claude, trombone a Radio France, uomo sensibile e dal viso paffuto, fortemente neutrale rispetto ai conflitti, e con la rara qualità di saper ascoltare le persone senza giudicare, è il migliore amico di Elisabeth. Vincent, uomo di mezza età in attesa di un figlio, è un affermato agente assicurativo di Parigi, uomo piacente, affascinante e sicuro di sé, dalla battuta pronta, di una cultura piuttosto “intuitiva”, fratello di Elisabeth. Più tardi li raggiungerà Anna, la donna di Vincent, in attesa di un figlio, donna in carriera nel campo dell’alta moda, ha iniziato a fumare durante la gravidanza.
L’andamento del film è a curve paraboliche: il dialogo inizia nella tranquillità per sfociare in una discussione accesa; ciò che accumuna i toni è sempre l’alto livello di ironia dei dialoghi, delle battute che distruggono ogni certezza dei personaggi e dei loro universi professionali e di vita. Ciò è possibile grazie al passato condiviso dei quattro, alla loro unione, alle loro storie comuni. L’arrivo dei dialoghi nel punto di agitazione più alto fa crollare sempre la tensione fino al ritorno al silenzio dei partecipanti, per ricominciare di nuovo. La discussione prende avvio dalla decisione, da parte di Vincent, di chiamare il proprio figlio Adolphe, come il protagonista del romanzo francese di Benjamin Constant.
Scatena di certo l’ilarità dello spettatore, assistere al confronto tra due visioni opposte, rispetto a questa scelta. Il professore della Sorbona è sconvolto; invoca il buon senso e la regola morale universale (citando Kant) che impedisce di nominare in questo modo la propria prole, in vista delle implicazioni storico-ideologiche connesse al nome, ricordando così il peggior dittatore che la storia conosca. Vincent, giocando con i significati, solleva il problema per cui qualsiasi nome sia inutilizzabile per il fatto di evocare un personaggio storico che ha agito uccidendo persone innocenti: ma quale sarebbe il fattore discriminante? Perché chiamare il proprio figlio Franco non sarebbe un “reato” sociale? Per la differenza nel numero di persone uccise? Vincent ribadisce che ogni scelta è politica, e la sua lo sarà. Suo figlio Adolphe getterà nell’oblio Adolf, perché darà origine al miglior ricordo associato a quel nome. Il suo sarà un atto rivoluzionario. Ma l’uditorio è incredulo e cerca di riportare alla ragione Vincent.
Uno scontro tra la necessità e il valore delle parole, sulla loro possibilità di cambiare i destini del mondo
In questo dialogo-confronto tra posizioni senza morale annunciata o sottesa, senza insegnamenti da impartire, ciò che emerge è un rovesciamento sorprendente di prospettive per mezzo dell’ironia e del gioco: solo così sembra possibile esplorare nuovi mondi, sentirsi presi in giro e provare il senso di leggerezza e potenza delle parole, dell’uso delle parole.
Mostrandoci giudizi comuni e universali, questo confronto conduce, nel piacere del riso, alla riflessione.
Forse chi detiene un posto di prestigio come quello di Vincent e ha studiato a lungo per ottenerlo, chi è uomo di conclamata cultura, professore per esempio, di letteratura francese per di più, spesso non è così disposto a moltiplicare le prospettive del proprio sapere, ad abbandonare quelle sicure della tradizione studiata e frequentata per accoglierne di nuove; si nasconde dietro i significati, difendendoli perché considerati più razionali di altri. In questo modo l’uomo di cultura non riesce a descrivere un’unione più concreta tra principio teorico e concretezza dell’azione, della vita. Nel confronto con Vincent, assicuratore, l’ottusità del professore crea continui effetti comici e si rivela come “ottusa”. Vincent dalle sue presunte “posizioni conservatrici” illumina di idealismo rivoluzionario la conversazione. C’è la possibilità di rinnovare la storia, l’attualità, non essendo costretti a reiterarne gli elementi, i ricordi negativi non generatori.
Piacevole, necessaria, la profonda unione che, attraverso il ricordo di momenti passati, unisce in un profondo legame di amicizia o di fratellanza chi discute, chi si aggredisce, consapevole che ogni “ostilità” sia reversibile e possa restituire il clima gioviale originario. La soddisfazione personale che traspare dalla sicurezza nei gesti dei protagonisti sembra essere il risultato dell’esercizio di una professione appagante, ottenuta attraverso un percorso di ricerca, una corsa ad ostacoli. Questo permette tra l’altro di ridere delle proprie piccolezze, dei propri difetti, esercitando una sorta di “saggezza del percorso”.
I dialoghi non sono mai ristagnanti, ogni battuta è polo di azione-reazione, i silenzi misurati per garantire ritmo e poesia.
Una volta scoperto lo scherzo di Vincent, che ha illuso tutti di voler chiamare il proprio figlio come il Fuehrer, viene fatta un’altra scoperta. Claude, considerato da tutti omosessuale, ammette pubblicamente di essere l’amante della madre vedova di Elisabeth e Vincent. Questo provoca altrettante reazioni comiche e la sorpresa generale. Ognuno reagisce alla notizia, tranne Anna, che già segretamente sapeva, avendo colto la coppia inaspettata sul fatto.
Claude racconta la storia con una descrizione grottesca, supportata da immagini flash back romantico-patinate.
Il finale è uno spettacolo tragicomico, amaro perché collettivo.
Elisabeth chiude la serata con un’esternazione ai vertici della sincerità, un lucido monologo dettato dai nervosismi, in un’esplosione conclusiva provocata dalla serata.
La donna esprime il suo disappunto per la propria situazione di madre indaffarata, di moglie che ha dovuto sacrificarsi all’attività del marito, di professoressa con una concretezza ed efficacia tutta femminile. Interessante svolta non conciliativa, chiara descrizione della scomodità del ruolo femminile. La donna urla la propria determinazione in una serata fatta di parole, di giochi di parole, di interscambi comici, spensierati che ignorano e seppelliscono la gravità di una vita multitasking, trascorsa a preparare cene e accudire figli, oltre che lavorare per sé e per il marito.
Una messa in scena dichiaratamente teatrale, offre il meglio dello spirito francese, della leggerezza e formazione intellettuale, della consapevolezza sociale.
Inedita creazione cinematografica francese.