Un abisso che ci inghiotte e ci restituisce più umani
“Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dove ci sono dei vuoti. È lì che qualcuno ha bisogno di stare ad ascoltare qualcosa che qualcun altro ha da dire a lui.” Si potrebbe iniziare citando Jacques Copeau. Una citazione che ricongiunge insieme una lunga serie di esperienze, più o meno note, modellate su un teatro di “urgenza” sociale e civile.
L’Abisso appartiene ad esse di diritto. È un progetto (perché definirlo spettacolo sembra quasi riduttivo: avremmo bisogno di nuove definizioni) pluripremiato, complesso, eppure di grande seguito, che si fonda sul racconto e sulla parola per condividere una urgenza sociale e umana di tutte e tutti noi. La partecipazione a questo rito comunitario di un affabulatore girovago – l’assonanza con l’immagine un po’ romantica degli antichi aedi è dietro l’angolo per i troppi dettagli in comune – mi ha riportato alla memoria i miei ultimi anni dell’università.
Franca Angelini aveva scoperto con emozione crescente gli spettacoli di Ascanio Celestini: la ricordo che prendeva appunti come una menade invasata durante una replica. Da lì presero le mosse diversi incontri: tutti fummo coinvolti nello studio del “teatro civile”, nella ricerca dei testi e degli autori-interpreti e nel tentativo di comprendere cosa era stato e cosa stava accadendo intorno a noi. Conobbi allora i lavori di Gabriele Vacis e Laura Curino, di Marco Paolini e di Ascanio Celestini e altri autori. Le esperienze erano legate dall’assenza di attori in scena in veste di personaggi e dalla frammentazione del punto di vista concesso dal racconto, incentrato invece nell’autore-affabulatore. Pochi oggetti. A volte nulla. Suono e parola variamente combinati. Un evento da riportare alla memoria collettiva, su cui riflettere, ripensare gli esiti dati per scontati e da lì partiva un viaggio di tutti con tutti. Poteva cambiare il modo di ricordare e quello di “riportare” i punti di vista, ma alla fine eravamo noi spettatori a tirare le fila e, spesso, a operare una integrazione più profonda attraverso le nostre memorie sociali, civili e personali.
L’Abisso sembra nascere per la stessa urgenza, con un simile “patto” fra scena e platea, come denuncia anche l’uso delle luci. Ma va oltre tutto questo. Mette in dubbio il passato e il presente in maniera più violenta, ma lo fa comunque in seno al medesimo universo mistico di linguaggi incrociati. La parola si fa suono, il suono mito e il mito torna a essere il centro di una riflessione contemporanea. Un cerchio, simbolo archetipico della perfezione celeste, che ci circonda, ci avvolge, ci abbraccia o ci stringe. Si tratta solo di una delle possibili immagini proposte dal racconto. Forse la principale. Forse la più vicina alla volontà di rendere una realtà così complessa attraverso un racconto frammentato, in cui la realtà stessa è indagata da più lati, troppi e contraddittori. Anche quelli meno “comodi”. Una narrazione in cui, finalmente, si perdono alcune certezze di sinistra – di coloro che credono che per il fatto stesso di appartenere a un tale pensiero politico ogni scelta sia quella più giusta – ma si guarda alla complessità del nostro contemporaneo.
Davide Enia, scrittore, drammaturgo, autore, corpo e “voce di voci” è quasi immobile, se non fosse per le braccia e le mani che ripetono, costantemente, gli stessi gesti, in una reiterazione ipnotica. I suoi luoghi distano poco: la sedia e il proscenio. Con lui Giulio Barocchieri che amplifica ogni scheggia grazie ai suoni, agli accordi o alle melodie. A volte insieme, altre quasi l’uno contro l’altro: come fossero il mare e le squadre di salvataggio o i naufraghi e la morte. A volte in contrasto, a volte in accordo.
Si comincia per caso: “scriveresti qualcosa sugli sbarchi a Lampedusa?!” Ecco l’incipit presto dimenticato. Mentre il ricordo ci fa viaggiare sui volti, sui corpi, nelle notti umide, fredde, nell’orrore del puzzo dei cadaveri o nella pace degli onori sacri. Il nucleo iniziale si allarga, si lavora per giustapposizione, salvo poi tornare su quanto già detto: nel ricordo i dettagli sfuggono, mutano, si adattano al prima e al dopo. Il tempo è sospeso e il racconto è arricchito, poi arricchito ancora di dettagli e di particolari. Così lentamente l’affabulatore-attore-autore ci mostra una realtà che valica i confini anche delle nostre certezze più radicate. In nome di un principio più alto che Davide Enia ci indica, ci si mette in dubbio. Agli sbarchi e al dramma o alla speranza che ad essi sono associati, egli accomuna un racconto personale, rigorosamente patriarcale della propria famiglia, giocando costantemente su un parallelismo nascosto, ma visibile. Si oscilla fra emozione e indignazione, rabbia e compassione, impotenza e coraggio. Gli abbracci, gli addii, le lacrime, i sorrisi, i pensieri, le preghiere si confondono, perdono i contorni e si fondono in una tavolozza umana che non ha razza, età, colore, religione, abitudini: in fondo il mito ci insegna che Europa è figlia di uno sbarco.
L’ABISSO
tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio editore)
uno spettacolo di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri