Il Don Carlo verdiano, ancora in scena al Teatro La Fenice di Venezia fino al 7 dicembre, non è una novità. La produzione ideata da Robert Carsen era già vista e se ne conoscevano pregi e difetti. Il pregio principale è quello di trasmettere in pieno l’austerità formale della corte spagnola di Filippo II, sebbene più opulenta di quanto i costumi di Petra Reinhardt e le scene di Radu Boruzescu riescano a suggerire nell’assenza di tessuti storici, gioielli, gorgiere o verdugali. Tuttavia l’effetto che se ne trae possiede una forza generata dall’essenzialità delle linee che è valida in entrambi i casi, senza soluzione di continuità.

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L’unico difetto, o forse il più macroscopico, consiste nella manipolazione della trama originaria in favore di una improbabile congiura a vantaggio del Marchese di Posa. Né Schiller né Verdi sarebbero mai scesi a patti concedendo un ruolo tanto ambiguo a un personaggio positivo come Rodrigo. Neppure avrebbero consentito un tradimento della coerenza storica, permettendo a un nobile di conquistare un irraggiungibile titolo regale. In fondo, il dramma storico deve essere coerente: sarebbe scoppiata una guerra europea per garantire la discendenza di sangue.

A fronte di questa enorme licenza, va riconosciuto a Carsen di aver trovato e perseguito però una coerenza interna all’opera stessa, facendo sì che i rapporti fra i protagonisti fossero costruiti in rapporto a questo finale: non tutti i registi si adoperano perché ci sia questa organicità, quindi il merito gli va riconosciuto. Così come non va taciuta la bellezza non puramente estetica, ma psicologica di ogni movimento che “fuoriesce” dal buio dell’ambiente circostante, grazie al contributo fondamentale degli interpreti. Così Don Carlo barcolla come un trasognato Amleto, vittima di un amore impossibile, Filippo II perde la sua austera immobilità in favore di una irrequietezza che ne denuncia la fragilità emotiva e politica di fronte all’Inquisitore, mentre Eboli cavalca l’ambiguità del suo ruolo a corte assai più decisamente di Rodrigo con un semplice guizzo sul volto. Sarebbe stato interessante, e forse più credibile, incentrare sugli intrighi di quest’ultima un finale ai danni della corona.

Il merito di evidenziare l’espressività dei corpi e dei volti discende dalla concezione luministica di Carsen stesso e di Peter Van Praet. Nell’alternanza di due tonalità principali, il caldo dorato e il bianco ghiacciato, ma soprattutto nella sua parzialità data dalla posizione quasi sempre di “taglio” la luce ha suggerito e letteralmente intagliato le anime nude, rinvigorendo alcune soluzioni antinaturalistiche – come il quartetto del III atto – in cui la situazione scenica è inconsistente o superflua rispetto al moto dell’animo.

Sul fronte vocale si possono leggere altri pareri, a volte discordanti fra loro, mentre in questa sede  è riconosciuta l’omogeneità di un cast che ha dato prova di impegno e ricerca di soluzioni personali e originali. Mi sia permessa una breve digressione che non si allontana dal tema. La vocalità operistica contemporanea non dovrebbe essere giudicata sempre sostanzialmente inferiore alle grandiosità di quella del passato. La mania di giudicare le prove di artisti viventi facendo ricorso alle registrazioni di defunti – splendide sì, ma superate come lo è quel mondo in cui essi operarono artisticamente – dovrebbe essere messa da parte. Neppure le direzioni artistiche sono più quelle di una volta, senza per questo giudicare se siano migliori o peggiori. Raramente si scrive di questo aspetto. Le regole di gestione della produzione operistica sono cambiate. I manager sono cambiati. Le esigenze dei teatri, del pubblico e degli addetti ai lavori sono cambiate. Allora anche l’espressività vocale deve affrontare una evoluzione che il supporto multimediale, oggi più invasivo che mai, tende invece a (de)limitare. La continua ricerca di una perfezione vocale fissata una volta e per sempre dovrebbe lasciare il passo ad altre considerazioni. Questo accade di rado.

In questa luce, è il caso di dirlo, tutto il cast del Don Carlo trova invece un suo spazio nell’hic et nunc della rappresentazione. Persino il frate di Leonard Bernad, che pure appare troppo giovane per il ruolo, ha una sua dignità, tanto più in relazione al brutale finale. Allo stesso modo la vocalità di Filippo II è condotta da Alex Esposito su territori inaspettati, che potranno segnare un nuovo corso al personaggio anche per interpreti futuri. Brilla l’innocenza del Don Carlo di Piero Pretti cui lo squillo conferisce gioventù e freschezza di prim’ordine, qualità mai scontate in questo ruolo, mentre Rodrigo è delineato da Julian Kim con un timbro brunito e saldo che contrasta con la presunta doppiezza politica. Il grande inquisitore di Marco Spotti, invece, riesce a realizzare un giusto contrasto nel confronto con il re, dando sfoggio della sua autorità non solo con la forza del volume, ma con quella più astuta di una dizione chiara e diabolicamente insinuante. Correttissimo il Tebaldo di Barbara Massaro, che il regista ha trasformato in una giovane novizia, tanto quanto il conte di Lerma di Luca Casalin e l’araldo reale di Matteo Roma. Gilda Fiume non ha avuto modo di dimostrare le sue doti perché, almeno dai palchi sull’orchestra, il suo intervento era poco udibile.

Le due donne dell’opera meritano infine una considerazione a parte. Alla Elisabetta di Valois di Maria Agresta va riconosciuto non solo un pregiato lavoro personale di natura psicologica e di corrispettiva resa scenica e musicale, ma anche qualcosa in più. Trovo che sia una artista di prima qualità, come ha saputo confermare in questa occasione e in molte, moltissime altre, anche quando forse non ho saputo riportare con completezza il mio pensiero positivo sulle sue doti. Sa fraseggiare con coerenza e affidare l’espressione del sentimento a piani sonori differenti in ogni situazione.

Resta, in ultimo, la principessa Eboli di Veronica Simeoni. Nei molti anni in cui ho seguito la sua evoluzione artistica ho ascoltato e letto personalmente innumerevoli giudizi su di lei. Alcuni più veritieri, altri troppo superficiali. Nella sua lunga serie di esperienze, ha saputo maturare uno stile personale che le permette di uscire dalle regole imposte dalla tradizione e crearne di nuove. Non solo con la volontà e l’intelligenza, ma mettendo in campo il talento e l’impegno in prima linea è sempre arrivata alla meta. Senza risparmiarsi, senza accettare compromessi. Non è semplice comprendere una personalità così complessa che ha riversato interamente nella sua Eboli. L’ascesa al do bemolle, tanto per fare un esempio, non avviene soltanto per accaparrare un applauso, ma perché quella nota, eseguita in quel modo, con una determinata espressività ha un preciso significato scenico e drammaturgico: un talento che travalica i criteri di analisi, che guarda al futuro e non al passato. C’è dietro alle sue scelte una coerenza che va cercata attraverso una analisi approfondita e senza pregiudizi.

Concludo, in breve. Myung-Whun Chung è un pilastro della musica operistica e sinfonica che trova in Verdi forse il suo territorio di elezione e se ha perseguito alcune scelte personali in termini di dinamica e di equilibrio timbrico è per dimostrare la sua idea, per sostenere il suo Don Carlo. L’orchestra ha piena fiducia in lui e si percepisce. L’operazione Don Carlo ha garantito un pubblico straripante e partecipe.

W Verdi!

Teatro La Fenice di Venezia

30 novembre 2019

G. Verdi, Don Carlo

Direttore Myung-Whun Chung

Regia Robert Carsen

Assistente alla regia e movimenti coreografici  Marco Berriel

Scene Radu Boruzescu

Assistente alle scene Serena Rocco

Costumi Petra Reinhardt

Luci Robert Carsen e Peter Van Praet

CAST

Filippo II Alex Esposito
Don Carlo Piero Pretti
Rodrigo marchese di Posa Julian Kim

Il grande inquisitore Marco Spotti

Un frate Leonard Bernad

Elisabetta di Valois Maria Agresta

La principessa Eboli Veronica Simeoni

Tebaldo Barbara Massaro

Il conte di Lerma Luca Casalin

Un araldo reale Matteo Roma

Una voce dal cielo Gilda Fiume

Deputati fiamminghi

Szymon Chojnaki, William Corrò, Matteo Ferrara, Armando Gabba, Claudio Levantino, Andrea Patucelli

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice

Maestro del Coro Claudio Marino Moretti

Allestimento

Opéra national du Rhin Strasbourg e Aalto-Theater Essen

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