L’Angelo di fuoco di Sergej Prokof’ev raccoglie un ampio consenso al teatro dell’Opera di Roma, dopo cinquant’anni di assenza. Il teatro, e l’opera in particolare, è una forma di spettacolo che ha necessità di una collaborazione più stretta e affiatata fra le parti per raggiungere quelle vette di successo e apprezzamento da parte del pubblico e degli addetti ai lavori, di cui questo Angelo è un esempio indubbio. Il merito è dunque della lungimiranza manageriale e artistica di Carlo Fuortes e di Alessio Vlad che hanno impostato un corso nuovo. Ma anche delle compagini artistiche stabili del teatro stesso che hanno risposto agli stimoli ritrovando una nuova giovinezza nel nitore orchestrale e nella compattezza corale, quest’ultima grazie in particolare a Roberto Gabbiani. Infine questo merito, per il caso specifico dell’Angelo di fuoco, va ascritto anche a tutto il cast, capitanato dalla fluida direzione di Alejo Pérez e dalla inquieta regia di Emma Dante. Inquieta perché densa, viva e per questo non esenta da riflessioni critiche.

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La direzione musicale trova nella definizione di linee pure e cristalline, nella ricerca della brillantezza timbrica e nella sottolineatura della ossessività ritmica – della parola o della linea musicale non fa differenza – una lettura alternativa alla opulenta versione di Gergiev che i più ricordano dal vivo o in registrazione, come un caposaldo. Ma la capacità di un artista si misura anche dal suo talento nella ricerca di strade alternative, di scorciatoie o passaggi segreti in grado di aprire visuali nuove su paesaggi già noti. La lettura di Pérez fa proprio questo. Come una cascata di montagna, guizzante e gelida, essa si presta con aderenza all’attitudine compositiva di Prokoviev che concepisce il timbro strumentale e la vocalità come gocce di un unico lago orchestrale. Superando la lezione wagneriana e attingendo ad una sorta di psicanalisi melodica, il colore e la tessitura dei differenti passaggi rispecchiano allora le manie e le psicosi del dramma su un piano universale e saperle illuminare nel modo giusto, senza disperderle, è un pregio non indifferente.

Emma Dante invece ha fra le mani il materiale più incandescente e, data la rarità esecutiva, quasi vulcanico. Ha avuto così modo di mettere a frutto una fortunata serie di idee registiche, sceniche e coreutiche che restano però entro i limiti del suo percorso creativo. Notevole, ma non illimitato. La drammaturgia del libretto, sintesi di personalità artistiche complesse come Valerij Jakovlevič Brjusov e lo stesso compositore, permette una infinità di collegamenti, rimandi, citazioni e letture a chiave che concedono ampio spazio inventivo al lavoro registico. La trama ha un andamento a quadri che la regia cerca di concentrare in un flusso unico attraverso l’utilizzo dei mimi sia all’interno delle scene, sia nei sipari fra un episodio e l’altro. Un espediente interessante che alla lunga diventa prevedibile e perde efficacia, perché alle volte è troppo esiguo, quando non completamente inconsistente. Si tratta però di un dettaglio. Nel complesso la Dante ha saputo trovare un’unicità compositiva credibile.

L’Angelo di fuoco – Foto di Yasuko Kageyama

Il nucleo propulsore dell’idea registica sembra concentrarsi e prendere avvio dalla scenografia superba, enfatica, barocca e spaventosa di Carmine Maringola che accompagna tutta l’opera in un clima di cupa ineluttabilità. Sappiamo così fin da subito che i turbamenti della protagonista non avranno un esito di redenzione, mentre con Lei cadrà tutto il mondo circostante in un baratro che non ha nulla di mistico o religioso, quanto di umano e relazionale. Il luogo scenico infatti, così come la musica suggerisce, non prescinde dal momento storico in cui l’opera è stata concepita: la trasposizione in una Germania cinquecentesca non è altro che il simbolo di un’Europa in disfacimento sul fronte umano e non certamente religioso.

Così gli stessi materiali “architettonici” appaiono freddi e distanti dall’umanità che li occupa, come se tutta la costruzione scenica non fosse che un immenso sepolcro. L’evento drammatico allora diviene una continua, eterna e ininterrotta vicenda emblematica a posteriori. In questo sepolcro persino i sinuosi tentativi di Alis Bianca, esteticamente affascinanti, non riescono a rendere percepibile la vera causa dell’inquietudine di Renata, incastonata nella musica e nelle parole di questo dramma, ma già nota. Così anche il ripetuto utilizzo dei mimi-ballerini, complice l’inventiva coreografica di Manuela Lo Sicco, diviene un espediente barocco, ampliamento fisico della scenografia, che non è sempre efficace neppure all’interno dei quadri, anche se raggiunge dei picchi di rara tensione emotiva. L’horror vacui vince a volte sull’equilibrio delle parti, ma questo Angelo di fuoco resta comunque un’operazione registica degna di nota cui le luci di Cristian Zucaro non aggiungono molto, se non in qualche raro istante, mentre i costumi di Vanessa Sannino, dai toni cupi e sanguigni, costituiscono un ulteriore punto di contatto fra personaggi e scena.

La punta di questo iceberg dirompente è data dal numeroso cast che sa affrontare i rispettivi ruoli grazie alla perizia tecnica o al fascino timbrico, certamente non alle doti sceniche, se si eccettuano Leigh Melrose (Ruprecht) e Maxim Paster (Mefistofele). Entrambi sanno esprimere i sentimenti attraverso la scansione vocale e l’atteggiamento fisico: così il cavaliere de L’Angelo di fuoco possiede tutti i chiaroscuri di un’anima riflessiva in cui il coraggio si mescola al dovere e alla passione, pur senza una vocalità particolarmente esaltante, mentre il diabolico tentatore rifulge di una sonorità vibrante e spaventosa associata a un aspetto quasi parodistico, più affine a Bulgakov che a Goethe. Subito dopo di loro una menzione speciale va a Elena Popovskaya che di Renata ha la caratura vocale, nonostante la presenza di alcune asprezze, e porta a segno un ruolo complesso e difficile sul fronte musicale, ma senza maturarlo pienamente sul fronte registico.

Bene o anche molto bene le altre parti, in particolare va ricordato il misterioso timbro di Mairam Sokolova (Indovina e Madre superiora), l’imponente figura dell’Inquisitore di Goran Jurić e la dolcezza vocale di Murat Can Guvem che in una sola frase sa incantare. Il progetto Fabbrica YAP del teatro, di cui quest’ultimo è parte assieme a Andrii Ganchuk, Domingo Pellicola, Timofei Baranov, è un vero fiore all’occhiello di questa istituzione musicale.

L’Angelo di fuoco – Foto di Yasuko Kageyama

Teatro dell’Opera di Roma

L’Angelo di fuoco

Musica Sergej Prokof’ev

Opera in cinque atti e sette quadri

Libretto del compositore da un romanzo di Valerij Brjusov

Prima esecuzione in forma di concerto

Parigi, Théâtre des Champs-Elysées, 25 novembre 1954

 

Direttore Alejo Pérez

Regia Emma Dante

 

MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani

SCENE Carmine Maringola

COSTUMI Vanessa Sannino

MOVIMENTI COREOGRAFICI Manuela Lo Sicco

LUCI Cristian Zucaro

MAESTRO D’ARMI Sandro Maria Campagna

 

PRINCIPALI INTERPRETI

RUPRECHT Leigh Melrose

RENATA Elena Popovskaya

PADRONA DELLA LOCANDA Anna Victorova

INDOVINA Mairam Sokolova

AGRIPPA DI NETTESHEIM Sergey Radchenko

JOHANN FAUST Andrii Ganchuk *

MEFISTOFELE Maxim Paster

MADRE SUPERIORA Mairam Sokolova

INQUISITORE Goran Jurić

JAKOB GLOCK Domingo Pellicola *

MATHIAS WISSMAN Petr Sokolov

MEDICO Murat Can Guvem *

SERVO Andrii Ganchuk*

PADRONE DELLA TAVERNA Timofei Baranov *

I GIOVANE MONACA Carolina Varela

II GIOVANE MONACA Silvia Pasini                                                         

 

* dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

 

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma

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