Ha debuttato a Torino la nuova creazione della compagnia Il Mulino di Amleto, realizzata con ACTI Teatri Indipendenti e ispirata a “Senza famiglia”, un testo della drammaturga milanese Magdalena Barile.
Uno spettacolo che, sul piano della rielaborazione registica, sembra discostarsi dalla consueta cifra stilistica, solitamente molto apprezzata, della compagnia torinese.
In scena una famiglia, composta da moglie, marito, due figli e una nonna: cinque personaggi in una statica condizione conflittuale tra loro, dovuta all’impossibilità di relazionarsi ed esprimersi con empatia. La drammaturgia rivela in modo esasperato, ma contemporaneamente affascinante, la cattiveria intrinseca di certe dinamiche familiari, facendo emergere il peso dell’eredità che ciascuna generazione tramanda a quella successiva.
Il personaggio della nonna (un ruolo en travesti, magistralmente interpretato da Angelo Tronca) è una madre, femminista e nostalgica degli anni Settanta, che risorge per recuperare (fuori tempo massimo) il rapporto con la figlia (Barbara Mazzi), madre a sua volta di due figli (Christian Di Filippo e Alba Porto), già adulti, ma irrisolti.
L’anziana donna persuade con ferrea volontà la figlia a seguirla lungo un percorso accelerato di emancipazione dal marito (Francesco Gargiulo); l’effetto non è quello desiderato, e finisce per travolgere i già delicati equilibri della famiglia. In luogo di un dialogo, praticamente inesistente, resta evidente il fallimento – storico e personale – di una donna, che si trasforma in senso di colpa per ciò che lascia dopo di sé.
Questa parabola dark è il pretesto per mettere in scena e interrogarsi sull’educazione politica e sentimentale tra generazioni: ma l’obiettivo viene raggiunto solo in parte. Se è vero che ogni rivoluzione comincia in famiglia, l’esito di questo spettacolo appare una “rivoluzione mancata”.
Infatti, la regia di Marco Lorenzi sembra puntare molto su una proverbiale, approfondita ed efficace caratterizzazione dei personaggi; come risultato, l’intento di trasmettere ideali libertari e di emancipazione si esaurisce nella forza dei personaggi (si veda l’intensa e disarmante ingenuità di Barbara Mazzi) e sembra voler combinarsi forzatamente con il potenziale storico dello scontro generazionale, che in parte rimane inespresso.
L’ottimo lavoro di costruzione dei personaggi non sembra conciliarsi con l’intenso lirismo intrinseco al testo, generando un evidente rallentamento nel ritmo dello spettacolo, dovuto soprattutto a un non sempre comprensibile disegno luci, che ricorre molto spesso all’espediente del buio tra una scena e l’altra, alternato a un repentino aumento dell’intensità dell’illuminazione.