Ci sono libri che sono facili da catalogare.
Romanzi che rientrano senza sforzo in etichette, in scaffali predefiniti e di cui è assolutamente facile parlare. Ci sono storie lineari, semplici, che permettono al critico di seguire uno schema quasi abitudinario. E poi, naturalmente, ci sono storie come quella de Il Minotauro di Benjamin Tammuz, edito da Edizioni e/o con una nuova veste grafica – rispetto a quella del 2011 – e inserita nella collana Le Cicogne.
Libri come questi sono rari e, soprattutto, sono difficili.
Sono complicati perché non possono essere limitati al racconto di una trama o al giudizio di uno stile, sebbene in questo caso entrambi gli elementi siano d’alto livello. Il Minotauro è la storia di un agente segreto che, a quarantuno anni, si innamora di una ragazza di diciassette, vista su un autobus e divenuta il faro della sua esistenza.
Invece di avvicinare la bella Thea, il protagonista decide di mandarle lettere battute a macchina alle quali la ragazza finirà con il rispondere dando il via ad una storia d’amore strana, struggente, piena di un senso costante di malinconia e dolore. Benjamin Tammuz decide, dunque, di raccontare insieme una storia d’amore che è anche una spy story ed un thriller insieme, perché l’amore conduce spesso in luoghi così oscuri da trasformarsi in un’arma e in un crimine.
Nelle pagine di questo romanzo, che non ne conta più di 176, c’è spazio per quattro vite, per degli omicidi, per delle riflessioni sul valore dell’arte e della musica. Si sente la carezza di un vento caldo e pieno di polvere, ma anche di collegi maschili e di un’Europa che sembra essere uscita da un romanzo di storia.
Ma, in mezzo a questo mosaico di sensazioni e personaggi, quello che Benjamin Tammuz riesce a fare con maggiore maestria è quello di spogliare l’amore dell’amplesso, del congiungimento dei corpi. Sebbene si parli di sesso e di alcune, strane perversioni, quando si ha a che fare con l’amore, l’autore lo dipinge scevro dalla carne tremula e dal sangue pulsante, rimandando l’immagine di un amore platonico, un amore che si forma nella mente, insieme al desiderio, grazie all’utilizzo delle parole e alla scrittura come arma, ma anche come rimedio. Perché se è vero che la parola ferisce più della spada, a volte non c’è rimedio alle brutture della vita che un racconto non possa in qualche modo lenire.
Ecco perché Il Minotauro è un libro difficile. Un romanzo difficile di cui parlare.
Perché non somiglia a nient’altro, ma anzi si fa un vanto di utilizzare alcuni archetipi del racconto scritto per creare qualcosa di originale. E perché è un libro che non si sottrae all’autopsia da parte del lettore, che trova nell’inchiostro delle parole scelte zone d’ombra e angoli di pura commozione. Ma anche nostalgia per un mondo che non esisterà mai più, fatto di orchestre e note classiche gettate contro l’avanzare della guerra: non solo quella reale, ma anche quella con cui ogni individuo ha a che fare e che passa per l’accettazione di sé, degli ostacoli che si possono incontrare e della vecchiaia che avanza e che impedisce di poter avanzare di pari passo con le ambizioni e le illusioni della propria anima.
Il Minotauro è un romanzo che dà tanto, ma che lascia anche molto.
Lascia sensazioni, riflessioni e pensieri che continuano a inseguire il lettore anche nei giorni successivi alla conclusione della lettura. Ed è un romanzo che non viene mai meno all’intento primordiale per cui si scrive: intrattenere. Il ritmo della storia non viene mai meno e Tammuz è incredibilmente bravo nel giocare con la curiosità del lettore e con le sue aspettative.
Un romanzo piccolo, ma che ha un contenuto così grande e così profondo che non potrà fare a meno di aprire una breccia nei vostri cuori.