La serata inizia a sipario aperto. Sul palcoscenico decine di lampadine spente piovono dal cielo e crescono dal terreno. Nel vociare pre-spettacolo del pubblico, un uomo in nero con il volto coperto cammina a passo di granchio tra la foresta di bulbi di vetro: gioca con le lampadine, prova a farle accendere, aspetta che in sala cali il buio e il silenzio.

Così si presenta Bianco su Bianco, lo spettacolo della Compagnia Finzi Pasca che ieri sera ha dato il là a I lunedì della prosa 2018-19 del Teatro Ristori. E subito, da questa prima impressione, il pubblico è informato: questo sarà uno spettacolo d’atmosfera, immerso in una dimensione intima e allo stesso tempo onirica.

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A trasportarci in questo mondo c’è il talento poliedrico di Helena Bittencourt e Goos Meeuwsen, attori, acrobati e circensi. In due sul palco, si destreggiano tra recitazione, chitarra, canto e movimenti del clown e del giocoliere: una performance continua che dimostra l’abilità e la resistenza degli interpreti.

Nel passaggio continuo dalla voce al corpo poi, la narrazione oscilla continuamente tra il tragico e il comico, dalla farsa umana a quella del clown. Un accostamento che se spesso si rivela efficace, in alcuni casi rischia un cambiamento di tono troppo brusco. Per quanto riguarda la voce, lo spettatore è subito posto davanti allo shock della barriera linguistica, che presto però scompare: lei  di madrelingua portoghese e lui olandese, riescono ugualmente a presentare un italiano efficace, che se anche in alcune sue sbavature influenza l’intonazione di qualche battuta, non intacca la comprensione e la godibilità del testo in generale.

Un monologo, quello di Bianco in bianco, raccontato a due voci, che attraverso la carrellata di alcuni rilevanti momenti della vita del protagonista Ruggero ci trasporta in un mondo altro, fatto di sentimenti così importanti che non esiste parola per descriverli. L’incomunicabilità umana si fa tema e cornice del racconto, scandito a tratti da vuoti di silenzio e in altri da cori eufonici.

Così come la vita di Ruggero è tutta attraversata da cose che non si possono dire e cose che non si sa come dire – confessare gli abusi di un padre, spiegare il dolore di un lutto, accettare verità scomode – come anche dall’incapacità nel comprendere l’implicito di un sorriso; così lo spettatore si trova davanti a una narrazione caratterizzata da vuoti e confusione, da una non linearità che costringe alla concentrazione, da un sottotesto che diventa più rilevante dell’esplicito. Allo spettatore quindi resta persino il dubbio sulla veridicità della battuta finale: se è possibile fidarsi di quel narratore inattendibile che sul palco ha già messo in scena tante bugie.

Oltre all’orecchio però, ciò che viene cullato dalla messa in scena è soprattutto l’occhio. Lo spettacolo di luci ha subito un forte impatto scenico e nel corso dello spettacolo l’effetto non si attenua davvero mai grazie a una brillante direzione tecnica e all’utilizzo ottimale di questo espediente. Attraverso la clownerie infatti, le lampadine diventano oggetto di gioco che spezza il ritmo del racconto e lascia allo spettatore il tempo di un respiro quando questo si fa troppo pesante.

Diventando anche però oggetto di narrazione, senza restare un vuoto artificio estetico, quanto piuttosto parte integrante se non fondamentale dell’atto conclusivo del testo e del suo climax. Il palcoscenico all’improvviso prende un significato nuovo, non più luogo della finzione scenica, ma luogo di vita, quella di Ruggero. La luce diventa d’un tratto malinconica: svelato il significato di quella bella vista tutto assume un sapore più amaro.

Tutta l’abilità di messa in scena – comprensibile se si scorre l’impressionante curriculum della compagnia – arriva al suo culmine nella scena finale: i petali bianchi cadono sul bianco della luce, dei vestiti, dello sfondo mentre un coro accompagna il lento sfilare fuori di scena.

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