Goliarda Music Hall è il letto sfatto di una notte insonne dove Goliarda
comincia a scrivere furiosamente poesie, accompagnata da una musica interiore
che la farà danzare e vivere con gioia tutta la vita, fino in fondo, senza menzogna e sarà in scena al teatro Palladium di Roma dall’11 al 14 ottobre.
Per l’occasione abbiamo intervistato Paola Pace, una delle due drammaturghe autrici dello spettacolo.
Goliarda Music Hall sembra essere uno spettacolo fortemente introspettivo di Goliarda Sapienza, un’artista maledetta che solo negli ultimi anni è arrivata all’attenzione del grande pubblico. Puoi farcene un’introduzione?
Goliarda Music Hall è il frutto di un lavoro a tappe che ha cominciato a vedere la luce grazie alla raccolta poetica postuma proprio di Goliarda.
Lì Sapienza parla in modo molto approfondito del rapporto con sua madre, una socialista molto forte che viva per la lotta politica e per i suoi ideali. Una madre sì con molti figli ma che mai ha voluto mettere da parte il suo spirito combattivo.
È quasi una figura mitologica che torna spesso negli scritti di Goliarda e nelle sue poesie, una letteralmente intitolata A mia madre.
E tra le figure che sono state in grado di influenzare Goliarda c’è solo madre o anche altri hanno avuto un simile impatto?
In realtà praticamente tutta la sua famiglia ha avuto un certo grado di influenza su di lei però non possiamo negare che le due più preponderanti sono state la madre, come ho già detto prima, e il suo psicanalista che la seguì dopo che Goliarda fu sottoposta alla terapia dell’elettroshock.
Come mai dovette subire una simile barbarie?
Perché sfortunatamente, ai tempi, era una pratica considerata efficace. Lei soffriva di una forte insonnia e quindi pensarono bene che la soluzione migliore fosse quella di sottoporla a quel tipo di “terapia”.
Inutile dire che lei non ne uscì assolutamente curata da quella simile esperienza, anzi, e quindi dovette affidarsi a questo psicoanalista che, grazie ad un metodo innovativo e particolarmente forte, riuscì a farla riprendere.
Deve essere stato molto duro per lei recuperare una propria stabilità da tutto quello.
Assolutamente. Questo sforzo lo vediamo proprio negli stessi scritti di Goliarda in cui, per via di alcune reminiscenze riportate a galla dal metodo dello psicanalista, che si concentrava molto proprio sui ricordi, lei continua ad oscillare tra memorie effettivamente vissute e veri e propri deliri.
Eppure, nonostante l’alternarsi tra realtà e immaginazione, comunque ritornano sempre le figure dei genitori, dei fratelli e delle sorelle. Segno evidente dell’amore profondo che Goliarda provava per la sua famiglia.
E tutto questo lo avete estratto solo dall’opera “Il filo del mezzogiorno”?
In realtà no, io e Francesca Joppolo, l’altra drammaturga, abbiamo deciso di prendere i ricordi anche da altre opere perché l’autrice è così particolare e originale che non potevamo limitarci solo a “Il filo del mezzogiorno”.
Sebbene questo ci abbia permesso una maggiore creatività all’interno del testo e dello spettacolo, purtroppo ha anche portato a una sorta di “confusione” sulle aspettative per la rappresentazione.
Di che tipo di confusione parli?
Parlo del fatto che, ovunque legga online, questo spettacolo viene definito un “condominio vivace e colorato”, quasi come se ci dovesse aspettare una sorta di commedia confusionaria sul palco quando, invece, quella in scena è la vita tormentata di un’artista che per anni è rimasta ignota al grande pubblico.
Una storia che noi abbiamo scelto di dividere in 5 capitoli alla fine di ognuno dei quali sarà possibile ascoltare a canzoni appartenenti alla tradizione anarchica cantate da Marcello Savona e Maria Piazza, due incredibili chitarristi cantanti.
Ci tenevamo particolarmente a mettere questo elemento dato che Goliarda amava la musica, infatti lei suonava il pianoforte, al punto da ritenerla un bene di primaria importanza per l’essere umano e noi vorremmo passare questo insegnamento al nostro pubblico.