Il secondo weekend di incursione al Festival di Spoleto 2018 è più ricco di appuntamenti rispetto al primo e conferma il medesimo livello di qualità del festival.
I due spettacoli del sabato sono entrambi presso il Nuovo Teatro Giancarlo Menotti, si tratta di Donna Fabia di Marco Tullio Giordana, con l’eccezionale Adriana Asti, e di Bells and Spells, fantasmagorica messinscena di teatro-danza.
Donna Fabia
Carlo Porta, poeta milanese a cavallo fra il 700 e l’800, è il mentore di un corto cinematografico creato da Giordana che vede protagonista Adriana Asti nei panni di una nobile meneghina del primo Ottocento. Si tratta di un evento particolare questa “Donna Fabia” spoletina, in verità: oltre alla proiezione del corto (in milanese) e alla relativa riproposizione dal vivo (in italiano) ad opera della stessa interprete, partecipiamo a una intervista “aperta” in cui il pubblico può rivolgere domande alla Asti e a Giordana, senza filtri.
Quest’ultima parte è stata organizzata alla carlona e ha gettato su tutti un pizzico di imbarazzo non tanto per le argute risposte dei due scaltri artisti, quanto per il tono delle domande. È evidente che l’ampia diffusione televisiva dei talk show non è di aiuto, ma anzi favorisce la voglia di chi è massa – il pubblico – di mettersi in mostra senza stabilire realmente un dialogo con chi è sul palco. Si perde così il filo – alto e nobile – di questo incontro e del suo tema principale: lingue a confronto.
Non solo il milanese e il romanesco, suggerimento iniziale del regista per nulla colto dal pubblico, ma anche dialogo fra linguaggio cinematografico e teatrale. Questa giustapposizione ha funzionato bene: mettere in parallelo due modi differenti di espressione – ad opera di una medesima interprete – è stato forse l’aspetto più stimolante. Si riusciva a toccare con mano la compenetrazione e la diversa efficacia dei due mezzi: entrambi impiegano il tempo con due finalità opposte.
Il cinema lo scandisce irrimediabilmente, facendo sì che il pubblico si adatti al tempo fissato una volta per tutte sulla pellicola; il teatro lo dilata, lo amplifica, lo rende imprevedibile grazie al contatto diretto fra le parti, per cui gli effetti dell’una hanno eco in quelli dell’altra e viceversa. Non si può affermare la superiorità dell’uno o dell’altro, ma accoglierne le differenze ben chiare e godere con maggiore consapevolezza di entrambi. In questo caso si potevano apprezzare gli eccezionali primi piani di Donna Fabia, snob ante litteram, ma con simpatia, e allo stesso tempo i sospiri, le attese e gli ammiccamenti linguistici che solo l’immediatezza teatrale può trasmettere.
Pur senza evocazioni dirette, lo spirito pirandelliano aleggiava fra coloro che ancora si interrogano sul mezzo e non presenziano solo per lo scopo.
Bells and spells
Dopo un piatto di strengozzi al tartufo del ristorante Apollinare di Spoleto, che sono il fiore all’occhiello di un menù superbo dall’antipasto al dolce, torniamo nuovamente al teatro nuovo per assistere a Bells and spells, ideato e diretto da Victoria Thierrée Chaplin. La scelta di questo spettacolo era dettata più dalla curiosità di vedere i discendenti della dinastia Chaplin all’opera che da altro, invece il risultato ha destato stupore.
Non tanto la perfezione formale, che non è risultata poi tanto perfetta, quanto l’inventiva e lo spirito generale dell’ideazione sono penetrati sotto la pelle e hanno lasciato una strana sensazione di malinconia. Le musiche ricordano e sembrano citare la filmografia francese di animazione, così come gli abiti e le situazioni. Il tempo appare sospeso in un limbo affascinante e ipnotico insieme. Non è chiaro se sia danza o gestualità, né se lo scopo sia un racconto con un suo inizio e una fine o solo una serie di suggestioni artistiche. Non importa.
Si entra assieme a Aurélia Thierrée e Jaime Martinez in questa vicenda di cleptomania, fra principi e quadri viventi, porte girevoli e paralumi di cristallo, stoffe scintillanti e scene da pochade fino alla fine, anticipata da un magnifico quadro che ricorda l’epica ariostesca: una foresta di attaccapanni trasformati in macchina scenica a forma di drago. Tutto avviene grazie ai due protagonisti, ma anche alla scenografia e ai costumi di Victoria Thierrée Chaplin, alla caleidoscopica coreografia di Armando Santin nonché al suono di Dom Bouffard e alle luci di Nasser Hammadi. Sublime e ingannevole allo stesso tempo è questo mondo al confine con il varietà, in cui persino l’errore tecnico sembra essere parte dello show.
Dopo la prova
La lunga salita a piedi fin sotto la Rocca Albornoz, fino allo spoglio spazio del San Simone, è premiata da una replica strepitosa di Dopo la prova di Ingmar Bergman. Anche qui il gioco è la trasposizione di un film in teatro.
Un film, però, in cui si discute sul teatro, sul suo modo di affrontarlo, di viverlo e di morire per esso.
Quello presentato al Festival di Spoleto 2018 è un testo riflessivo, evocativo e onirico che la sapienza scenica di Ugo Pagliai e Manuela Kustermann, accompagnati da Arianna Di Stefano, ha saputo rendere eccellente. Il meccanismo è quello di una scatola magica: dal film alla scena, che parla di messinscena, senza inscenare nulla se non il dramma di tre vite dedicate all’arte della recitazione, fuori e dentro il palco. Si impersonano i ruoli per vivere e, più spesso, per sopravvivere.
Lo stesso motivo per cui si torna più volte sugli stessi testi e autori, ma cambiandoli e modificandoli a seconda delle differenti fasi della vita. Pagliai incarna il vecchio regista amante di Rachel e di Anna, madre e figlia destinate a un rapporto di odio profondo. Madre e figlia che non si incontrano mai se non dialogando con il vecchio Henrick. Madre e figlia specchio l’una dell’altra, forse vittime di se stesse. Molto capace la Di Stefano nel ruolo della figlia, ma bisogna riconoscere la stupefacente incisività di questa madre che Manuela Kustermann sa ricoprire di mille sfumature.
Vestiti con gli abiti semplici di Daniele Gelsi, circondati dalle scene perfettamente soffocanti di Alessandro Chiti ed esaltati dal disegno luci di Umile Vainieri, tutti gli interpreti sanno dare il meglio di sé grazie alla razionale regia di Daniele Salvo. Menzione speciale alle musiche originali di Marco Podda che sembravano scritte appositamente per quel luogo abbandonato e suggestivo che solo il Festival sa far rivivere delle emozioni universali dell’Arte.