Il Festival di Spoleto ha una storia lunga che affonda le sue radici nel fermento culturale del Novecento post bellico. Ha trovato casa in un centro storico di eccezionale bellezza e grazia che ha imposto la sua forza politica e religiosa dall’alto delle verdi colline umbre. Le bellezze culturali si sposano con quelle della tradizione culinaria e della straordinaria cortesia degli abitanti che riescono ad accogliere tutto il pubblico – numeroso ed eterogeneo – senza mutare l’equilibrio di un centro che sembra rimasto fermo nel tempo.
L’energia che si sprigiona nei pochi giorni del Festival ha dell’incredibile e permette a chi partecipa ai suoi appuntamenti di toccare con mano le eccellenze mondiali in molti campi artistici. Poter partecipare ai numerosi eventi che costellano il programma non è semplice, nonostante gli orari favorevoli e il perfetto incastro fra i differenti momenti. Così, come per lo scorso anno, si è scelto di attraversare trasversalmente la programmazione ed ecco il risultato.
Festival di Spoleto 2018
La prima tappa del Festival di Spoleto 2018 ha inizio domenica 8 luglio. Al nuovo teatro Giancarlo Menotti va in scena The Beggar’s opera, ballad opera di John Gay e Johann Christoph Pepusch, con la regia di Robert Carsen, legato a Spoleto e a Menotti fin dall’inizio della sua carriera, e la direzione musicale di William Christie insieme a Les Arts Floirissants.
Basterebbero questi nomi a smuovere tutto il pubblico di appassionati e addetti ai lavori per un’opera poco conosciuta eppure eccezionalmente attuale. La trama è semplice e già nota soprattutto grazie al rifacimento del 1928 a opera di Brecht e Weill: fra i bassifondi di Londra si aggirano dei loschi figuri – ladri, prostitute, protettori – i cui codici di comportamento sono rovesciati rispetto a quelli socialmente indicati come “giusti”, dopo varie peripezie e cambi di fortuna, il protagonista riceve la grazia e si porta a casa l’affare più grande, quello di Ministro della Giustizia.
Il rovesciamento ha, naturalmente, una funzione critica nonché satirica. Tuttavia le differenze ci sono. John Gay nel 1728 bersagliava l’opera seria italiana e i suoi valori esageratamente fuori misura, così come i suoi interpreti, divi capricciosi e stravaganti spesso in lite fra loro, come richiama il duetto fra Polly e Lucy, alter ego di due note primedonne dell’epoca. Lo spirito satirico viene riacceso dalla lettura di Carsen, ambientata fra anonimi scatoloni che fungono da scena, quinte, praticabili, mobili, sedute, credenze, vani e, persino, da leggio per i musicisti in scena. I brani ballabili, in perfetto stile barocco, vengono reinterpretati in chiave di “street dance”. Il tutto mira a trasportare i bassifondi nei nostri tempi, pur mantenendo intatto lo spirito e l’esecuzione musicale. L’operazione funziona e anche molto bene! Nello spazio di quasi due ore la musica barocca accompagna una fitta serie di dialoghi – aggiornati e riveduti da Ian Burton e Carsen – che arriva a mettere in ridicolo persino la Brexit.
Nel dettaglio si spargano lodi a tutto spiano per le fantasiose scene di James Brandily e i variegati costumi di Petra Reinhardt, ma anche per le coreografia Rebecca Howell che mescolavano sapientemente melodie antiche e movenze ultramoderne, nonché le suggestive luci curate dallo stesso Robert Carsen e da Peter van Praet.
Sul fronte musicale la conduzione musicale dal clavicembalo di Marie van Rhijn risulta perfettamente integrata alla scena, grazie allo stravagante look che la fa apparire come una dei mendicanti, e alla esecuzione musicale, per cui l’ensemble Les Arts Florissants è una garanzia di qualità e di filologia.
Da ultimo vanno menzionati almeno coloro che, per un verso e per un altro, si sono distinti fra la folta schiera degli interpreti: intrigante e scaltro il Mr. Peachum di Robert Burt, affiancato da una Beverley Klein nel doppio ruolo di Mrs. Peachum e Diana Trapes che ha toccato vette di eccezionale bravura; bella e musicalmente ineccepibile è Kate Batter nei panni di Polly Peachum, degna controparte della più moderna Lucy Lockit di Olivia Brereton, mentre trasuda sensualità Emma Kate Nelson come Jenny Diver.
Nonostante la perfezione di tutto il cast, persino degli ensemble che nulla hanno da invidiare ai colleghi protagonisti, perfettamente a suo agio nella parte vocale e scenica risulta Benjamin Purkiss come Macheath che raccoglie grandi consensi alla conclusione dell’opera.
La risposta alla morale finale, che sottolinea la rapacità di ogni essere umano – “che ci guadagno?” – allora è questa: ci abbiamo guadagnato una rinnovata consapevolezza che i capolavori sanno reinventarsi, legandosi alla attualità del momento storico, senza morire mai.