Intervista al poliedrico interprete Angelo Di Genio: “E’ uno spettacolo diretto, il pubblico compie questo viaggio coast to coast con me”
Fidati solo di ciò che si muove. Nel movimento c’è la vita.
È chiaramente questo monito, evidente già dal titolo della pièce, il motivo portante di Road Movie, testo del 1995 di Godfrey Hamilton, in scena per la quarta stagione (fino al 1̊̊̊ marzo) all’Elfo Puccini di Milano, il Teatro che lo ha prodotto e lanciato nel 2013. L’intenso e a tratti delirante viaggio coast to coast – fisico e soprattutto interiore – del trentenne Joel attraverso l’America degli anni ’90 e nel suo stesso animo.
Un testo non semplice quello portato sulle scene dal regista Sandro Mabellini, che per certi versi può apparire “frammentato” e che grazie alla magnetica interpretazione di Angelo Di Genio – protagonista che incarna contemporaneamente più personaggi – riesce a calamitare l’attenzione del pubblico.
Un viaggio di scoperta dell’amore e un viaggio di perdita; di presa di coscienza dei nonsense dell’esistenza, ma anche della possibilità di lasciarsi andare al sentimento e al contatto fisico profondo, smettendo per un attimo di “controllare”, di “trattenere”.
Una pièce di memoria, che ricorda e sensibilizza sull’esplosione dell’aids, in quel momento (tra gli anni ’80 e ’90) al suo culmine quasi epidemico, soprattutto nella comunità gay (oggi, invece, molto più consapevole di certi pericoli) e che tutt’ora funge da denuncia del problema, del fatto che se ne parli poco, e da motore di consapevolezza.
Visti anche i dati, ancora allarmanti, dei contagi che il virus e i comportamenti errati continuano a produrre e vista la diminuita percezione del rischio presso i giovanissimi, denunciata anche a livello ministeriale
Non è un caso che Road Movie collabori direttamente con la LILA – Lega Italiana per la Lotta all’Aids: una partnership “artistica” ben esplicita nel momento in cui vediamo il personaggio di Madiva – donna che ha perso un figlio proprio per aver conclamato la malattia – distribuire profilattici in platea e interagire con il pubblico.
Dopo quattro anni di successi Road Movie continua a riscuotere consensi e apprezzamento. Di fronte ad un testo non semplicissimo come questo, quali sono i motivi di un tale riscontro (oltre, naturalmente, al tuo evidente talento interpretativo)?
Credo siano moltissimi, a partire dall’umanità con cui viene trattato l’argomento. Si tratta di storie che in Italia si fatica a veder raccontate, soprattutto con questa tenerezza e questo gusto prettamente anni ’90, essendo stati abituati soprattutto a un linguaggio pop, quello con cui è cresciuta la mia generazione.
Ha successo per l’umanissimo e quanto mai attuale tema della paura, sentimento che tutti noi proviamo costantemente, mentre siamo incastrati in questo mondo che ci spinge a tendere sempre verso il successo personale in tutti i campi (lavoro, amore, perfezione di vita).
Paura di amare, di lasciarci andare, paura delle nostre potenzialità, di non essere abbastanza per gli altri. Importante è anche il tentativo di esprimere che la condivisione delle proprie paure – l’ascoltare e l’imparare dalle storie che gli altri possono raccontarci – è un valore. A ciò si aggiunge il fatto che tutto lo spettacolo nasce, si sviluppa e si crea in diretta.
Non c’è nulla di registrato, né una musica, né una voce fuori campo, nemmeno una memoria luci, nessuna quarta parete.
È chiaro che affrontare temi che coinvolgono tutti in una modalità così diretta, che vede tutti scrutati fin dentro le pupille degli occhi, crea una compartecipazione che si avvicina all’esperienza più che allo spettacolo teatrale. In uno spettacolo come questo è fondamentale creare fin da subito uno stretto legame comunicativo tra palco e platea.
Road Movie è stato proposto anche alle scuole, con dei matinée: che tipo di riscontro c’è stato dai giovanissimi, apparentemente “lontani” dagli anni ’90 e da quelle emergenze?
I ragazzi hanno voglia di sentire storie che conoscono poco, con un linguaggio a loro diretto. Sono curiosi, molto, e partecipi.
Lo spettacolo qui, all’Elfo Puccini, in Sala Bausch, gioca anche su una certa vicinanza con il pubblico, sia fisica che emotiva, e tutte le repliche per gli studenti sono state molto partecipate. Si commuovono, fanno domande, ridono, compartecipano molto più di quanto pensiamo: i ragazzi hanno voglia di essere coinvolti in questa meravigliosa arte comunicativa che è il teatro, che li sorprende.
Quello che spesso mi dicono è che non pensavano che il teatro potesse essere così (sorride, ndr.).
Della tua interpretazione colpisce – oltre all’energia ben dosata e indirizzata, e al tuo funzionale istrionismo – la vividezza delle immagini: dal luccichio dei tuoi occhi arrivano dritte al pubblico. È questo uno dei binari su cui corre l’attoralità, il lavoro sul ruolo? Il vedere, l’aprire le immagini, oltre che il sentire?
Hai già detto tutto (altro sorriso, ndr.). Si, è esattamente questo. Poi, in un viaggio coast to coast da New York a San Francisco, le immagini dei luoghi e delle atmosfere che devi mostrare al pubblico con la sola forza delle parole e del tuo corpo sono tante, bellissime e importanti. Ma tante sono anche le immagini interiori, i percorsi emotivi che sia Joel che gli altri personaggi compiono durante lo spettacolo. Allora il lavoro/mestiere dell’attore diventa enorme, preciso, puntuale, minuzioso. A volte anche un po’ schizofrenico.
Ma se non sono chiare per me quelle immagini, interne ed esterne, se non passo quelle immagini allo spettatore tramite la mia sensibilità e il mio punto di vista, la mia interpretazione, Lui non riuscirebbe a seguirmi e compatirmi e a compiere questo viaggio mano nella mano con me, con Antony (il musicista) e il tecnico luci.
Ok il sentire, ok il vedere, ma poi è necessario aprire quelle immagini affinché inondino il pubblico, e non sommergano e soffochino solo me e la mia interpretazione. Altrimenti rimarrebbe tutto una ‘sega’ istrionica e personale (ancora un sorriso, ndr.).
In questo caso – ma spesso è così – il lavoro dell’attore è un po’ come un medium che mette in contatto un mondo che non c’è (o che aleggia intorno a noi, come i sei personaggi di Pirandello) con il mondo reale del pubblico, e lo fa utilizzando se stesso (l’attore) come strumento.
Il bravo Antony Kevin Montanari, con te in scena al pianoforte e al violoncello (le musiche sono di Daniele Rotella, ndr.) non si limita a suonare e a sottolineare musicalmente la narrazione: cosa vuole esprimere la relazione che in certi momenti si instaura tra voi e sembra quasi “spezzare” la storia?
Il lavoro con Antony – che non è solo un musicista, ma una persona e un artista davvero di gran cuore – è stato molto empatico, minuzioso, preciso e toccante. La musica in questo spettacolo è più che una voce, più che un personaggio, più che un ambiente: è parte integrante del viaggio.
Necessario il rapporto scenico, necessaria la sua presenza così coinvolta nel viaggio, necessario anche spezzare il racconto per ricordarci che in quella sala stiamo costruendo un racconto sulla memoria.
Insieme, io Antony e il pubblico, giochiamo a ripercorrere questa storia e lo facciamo per l’importanza che deve avere nella comunità il ricordare e rivivere storie che hanno permesso ora a noi di vivere questo presente.
Dopo la quarta stagione di repliche all’Elfo porterete lo spettacolo in giro? Dove?
Andremo a Verona il 2 marzo e a Ragazzola (Parma) il 3. Poi, per quest’anno, ci fermiamo. Vorrei portarlo molto in giro, ci sono tante piazze italiane che Road Movie non ha ancora toccato, e tutti mi dicono che invece dovrebbe essere visto da molte persone di diverse generazioni.
Ma il sistema teatrale italiano è un po’ incancrenito in alcune dinamiche economiche (i soldi sono sempre troppo pochi) e organizzative, che non aiutano certo spettacoli come questo a diventare ‘mainstream’.
Credo che continueremo a proporlo, comunque, ancora a Milano, visto che ogni anno continuiamo a lasciare, purtroppo, della gente fuori dalla sala strapiena (ci saluta, ancora, con un sorriso, ndr.).