Al Quirino fino al 4 febbraio Gabriele Lavia impersona un Padre, non uno qualunque, quello di August Strindberg, che nella sua tragedia naturalistica porta sul palco uno scenario imponente di una famiglia statuaria, dalle passioni ingombranti e fragorose come la tempesta di neve, che tuonando dai finestroni cupi fa da contralto alle personalità volitive di Gabriele Lavia, Adolf, il padre di Federica Di Martino, e di Laura, la madre.
Una tragedia dal sapore classico ma imbastita dei costumi d’epoca dell’800. Anche la scenografia, nel contrasto di toni cupi e rosso acceso, ricalca la dialettica violenta tra le due figure, materna e paterna. Le musiche sono stridenti e monocordi, impongono, fin dall’inizio, la gravità della tragedia che durante tutta la piece non ha pace, né crescendo, né soluzione ma incombe costantemente nei volti induriti, scolpiti da un gioco di luci tenebroso, da “maestro del brivido”.
Adolf è il capitano che, rientrato dalla guerra, ne affronta una con la propria moglie ben più distruttiva e pervasiva: le velleità di una famiglia che sembra altisonante e che in realtà distrugge ogni senso di ordine costituito che nella società di fine ottocento comincia già da tempo a mostrare visibili crepe.
Lo status quo della famiglia dove il padre, capitano militare, dispone “per legge” come si affretta a ripetere incessantemente Adolf, in una disperata lotta ad esorcizzare le sue paure, dei componenti, la figlia, la moglie, la suocera e l’anziana tata sta declinando.
L’effetto è quello della fine bizantina di un impero, nella sua declinazione domestica, che non riconosce più i suoi punti di riferimento autorevoli, non sa più dove rivolgere lo sguardo verso un’autorità che è bifronte: nel caso della tragedia di Strindberg, assume ora le fattezze materne ora quelle paterne.
Archetipico scontro
Eppure, fin dall’inizio, è chiaro chi dispone di se stessa e degli altri, con determinazione familicide. Il pater familias contrastato e superato dalla mater familias che non conosce ostacoli di legge né di moralità né di tradizione, una sovrana assoluta in strenua difesa di un feudo minacciato, o forse un’anti-Medea della tragedia classica, abile dominatrice delle sue passioni. Dov’è il capitano che prosegue indomito verso la meta e dov’è la moglie bisognosa di guida e preda del sentimento uterino e soprattutto chi è l’uno e chi è l’altra.
È uno scontro tra due titani che si consuma nell’appropriarsi dell’educazione della figlia che dovrà seguire il modello del padre o della madre, consegnando alla tragedia un modello che però non riesce a prevalere in una società disorientata che si rifugia nel magico e nello spiritismo per placare le sue ansie oscurantiste.
“Il padre” di Strindberg è forse, allora, un padre qualunque o più strettamente un uomo, depurato dai suoi orpelli di gloria, fragile e stretto, almeno così lo vede Strindberg, nella morsa di un femminino avido e senza scrupoli della moglie o, all’estremo opposto, tenero e materno, fino all’incoscienza di sé, come quello della vecchia nutrice.
Una tragedia dove Lavia sa essere eccezionale e possente regalando una performance senza eguali per magistralità e la Di Martino compete con forza senza cedere neanche un “muscolo” della maschera teatrale.