“Un nessun dove verissimo” è il tuo primo romanzo. Leggendolo, traspare tutto l’amore per i libri e la lettura. Da dove nasce questa passione?
Non saprei dire. Leggere mi è sempre piaciuto, fin da piccola. Un’estate, alle medie, ho cominciato ad andare in libreria anche da sola. Non ho più smesso. Credo che il luogo, prima ancora dei libri, mi abbia affascinato. Mi chiedevo se i dipendenti della libreria avessero letto tutti i testi degli scaffali. Li mettevo alla prova, facevo domande sugli autori. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che, per quanto si ami leggere, ci sarà sempre un’altra storia che non conosci.
E’ nata così. Da un’esigenza di sintesi, rimasta frustrata.
Nella storia che racconti ci sono elementi autobiografici?
Non credo che esistano storie che non lo siano. Tutti i libri sono in un certo senso autobiografici., anche se non è necessario raccontare di sé, riferire episodi precisi. Ogni romanzo, in fondo, racconta dell’autore.
Nel mio caso c’erano delle esperienze che volevo raccontare. Ho creato personaggi e situazioni che mi consentissero di trasferire un’idea, a volte qualche ricordo. I libri rossi che hanno iniziato Flavio alla lettura, esistono. Sono i miei.
Chi mi conosce bene, è riuscito a riconoscere anche qualche momento particolare, affidato a circostanze diverse. Ad esempio, la dinamica di rapporto tra Pietro e la sig.ra Rastelli, costruita sul rispetto della reciproca diversità, racconta la storia di una mia amicizia personale, profondissima.
In questo senso, tutti i miei personaggi sono autobiografici.
A Flavio ho affidato forse il compito più difficile: raccontare il percorso identitario che porta a un cambiamento importante. Liberandosi dai condizionamenti affettivi e culturali in cui lui stesso si è confinato, il protagonista del mio libro riesce a recuperare quella dimensione di libertà interna, di fantasia, necessaria per poter ricominciare a scrivere.
Certamente in questo caso ho attinto a piene mani dalla mia vita personale e dalla partecipazione all’Analisi Collettiva, i seminari di psicoterapia di gruppo, condotti per oltre quarant’anni dallo psichiatra Massimo Fagioli, recentemente scomparso. E’ stata per me un’esperienza umana e formativa fondamentale, perché è attraverso questa ricerca che ho trovato, come Flavio, uno spazio interno che non sapevo di avere. A Massimo, il mio Pietro, ho infatti voluto dedicare questo libro.
I lettori non possono non chiedersi quale sarà il futuro dei personaggi “creati” da Flavio e che, alla fine del libro, non hanno ancora trovato una storia. Hai in serbo qualcosa per loro? Li ritroveremo ancora?
La questione in effetti è proprio all’opposto. C’è da chiedersi se loro hanno in serbo ancora qualcosa per me. Lo scrittore, in effetti, è solo un mezzo. La gente ricorda un grande personaggio, raramente il suo scrittore. Ed è bene così. Perché una storia funzioni è necessario che, a un certo punto e anche solo per un attimo, il lettore possa dimenticare che sta leggendo. Deve poter credere che sia tutto vero. Ecco. In quel momento preciso, il tuo personaggio stacca i fili e se ne va per la sua strada. E dopo non è più così chiaro chi appartenga a chi.
Sono sicura che i quattro personaggi abbiano già trovato infinite storie in cui calarsi. Non erano molto soddisfatti di Flavio e del suo modo semplicistico di dividere il mondo in “buoni o cattivi”.
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