Nicola Russo e Nina Simone, intervista al cuore e all’anima di un artista

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Intervista a Nicola Russo, uno degli autori più giovani e prolifici del teatro moderno e regista di autentici capolavori come Elettra, biografia di una donna comune, che a maggio 2018 arriverà sui palchi di Brescia assieme a Nina, spettacolo dedicato a Nina Simone.

Incontro Nicola Russo in un freddo pomeriggio romano. Mi accoglie nella sua casa in cui spiccano le locandine dei suoi spettacoli e di quelli che ha amato, come mi ha raccontato poi. Lo conobbi molti anni fa, incrociandolo nei corridoi del liceo quando lui iniziava la sua lunga carriera.

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Ho ritrovato Nicola nella scorsa stagione al Teatro Vascello con un suo spettacolo Vecchi per niente e l’ho seguito poi per Le vie dei Festival con Io lavoro per la morte. Di lì la scoperta di un mondo di ricerca, di studio, di riflessione e di grande consapevolezza: quella di voler costruire un nuovo linguaggio della scena.

Come ti sei avvicinato al teatro?

Molto presto. Ero ancora al liceo e iniziai a seguire la Scuola del Teatro dei Cocci, a Testaccio. Avevo 15 anni e l’insegnante allora era Isabella del Bianco: una donna e un’insegnante di altri tempi, nel senso migliore del termine. Aveva una formazione molto classica e ci faceva lavorare come la vecchia scuola, anche su testi impegnativi.

L’idea della scuola di teatro mi venne perché avevo visto Diario di Vaslav Nijinsky con Redjep Mitrovitsa, un attore polacco della Comedie française, al Teatro Valle e mi ero subito reso conto che volevo fare quale mestiere lì, quello di attore. Mi capitò di vedere anche Anna Proclemer in Giorni felici al Teatro della cometa: mi ricordo ancora l’emozione per la vicinanza. Le vedevo ogni espressione e persino il trucco sulla faccia.

Cosa ti ha spinto poi a rimanere su questa strada?

Si inizia un po’ tutti per lo stesso motivo. E spesso sono motivazioni banali, soprattutto quando si è molto giovani: farsi vedere, essere accettati, anche sentirsi dire bravo. E in momenti della vita in cui questo non accade, come l’adolescenza o la prima giovinezza, possono fare la differenza anche in termini di motivazione. E infine, in fondo, una spinta narcisistica che però con gli anni andrebbe affievolita, se non del tutto esclusa.

In verità il teatro a me ha regalato una presa di coscienza e di percezione di quello che gli altri vedevano di me.

E il primo lavoro?

Appena finita la scuola di teatro, ero ancora durante l’ultimo anno di liceo, feci delle foto per un book. Era la prima volta che mi vedevo dall’esterno. Sono venuto a patti con la mia immagine. Lì mi sono accorto di non essere cosciente del mio aspetto. Però il fotografo che me le aveva scattate mi diede il numero di un’agenzia. Con queste foto andai e mi presero per alcuni film come I Pavoni di Luciano Manuzzi, Nemici di infanzia di Luigi Magni e Marciando nel buio di Massimo Spanu.

Ma la mia strada era il teatro: un mio amico mi suggerì di presentarmi per la ripresa di Resti umani non identificati di Brad Fraser dell’Elfo di Milano. Feci il mio primo provino con Bruni e De Capitani e andò bene. Allora era al teatro di Porta Romana, quelle poltrone che ho a casa sono di quel teatro, che ora non c’è più. Facemmo una grande festa di chiusura e, siccome il teatro sarebbe stato demolito, ognuno di noi poteva portarsi via qualcosa.

Come è stata l’esperienza con il Teatro dell’Elfo?

L’esperienza con il Teatro dell’Elfo, che è durata molti anni e con un numero di repliche enorme, è stata incredibile. Ho toccato con mano quanto fosse radicato il teatro in quella città.

Il bello dell’Elfo è anche essere parte di un gruppo che tiene gli spettacoli in repertorio per anni. Di solito avevi ruoli più importanti in alcuni e secondari in altri, ma avevi anche una continuità lavorativa. È un progetto culturale e contemporaneamente un progetto di impresa che a Roma manca.

Hai degli spettacoli che ti hanno segnato più di altri?

Fra quelli che ho visto, sicuramente due entrambi di Alain Platel: Bernadetje nel 1998 al Teatro Vascello, che era una sorta di parco di macchinine a scontro in cui si svolgevano le storie dei personaggi; La tristezza complice nel 1995: uno spettacolo di danza contemporanea, ma non ci si accorgeva nemmeno che stessero danzando. Il lavoro che Alain Platel è capace di fare con danzatori e attori è                                                                                                                 illuminante e di grande ispirazione.

Fra gli spettacoli cui ho partecipato come attore invece posso citare certamente tre titoli. Il primo è Sogno di una notte di mezz’estate con l’Elfo in cui interpretavo Puck: è stato un avvio, mi ha fatto capire che questo lavoro lo potevo fare. Era un lavoro sulla fisicità, sulla sensualità, sulla seduzione: tutto quello che allora credevo fosse la base del teatro.

Gli altri due spettacoli poi mi hanno scardinato il cliché che avevo addosso: Peccato che fosse puttana di John Ford diretto da Luca Ronconi e Anna Karenina di Eimuntas Nekrosius. Nel primo facevo Annabella, la puttana. A parte la gratificazione personale di lavorare con Ronconi, avevo anche l’opportunità di ricoprire un ruolo differente. In più creare uno spettacolo con lui ti apriva la testa per la genialità e l’acutezza nell’analisi del testo.

Credo che fosse un’esperienza più importante quasi a livello registico che attoriale: come aprire la mente di fronte a un testo, come cercare la soluzione meno scontata. Nekrosius invece è un poeta. Vado a fare il provino con lui, che parla solo lituano, ma ti sa guardare dentro. Lui ci ha scelto, ma senza farci recitare, ci ha fatto parlare e poi ci ha scelti, ma senza dirci il ruolo.

Alla fine interpretai un 45enne malato di tisi, rivoluzionario e moribondo

Una parte che mai avrei immaginato di interpretare. Eppure aveva trovato un’anima, un nucleo ignoto forse anche a me. Lì ho capito come si può lavorare con la poesia in teatro. Fu un effetto straniante soprattutto nella ricerca di una voce, molto sottile, diversa dalla mia: fu difficilissimo per me, molto impegnativo. E questo lasciare spazio alla poesia in teatro cerco di portarmelo dietro quando costruisco i miei spettacoli.

Il passo alla regia è stato naturale?

La prima regia la ideai a 21 anni. Ma le prime regie vere le feci all’Elfo su testi di Michel Marc Bouchard: Le muse orfane e Storia dell’Oca, due produzioni fatte a Milano. All’inizio non sapevo bene come scegliere e di cosa parlare. Poi dopo l’esperienza con Nekrosius ho capito la questione del Physique du rôle, che è rimasta centrale nella mia ricerca. Lì ho capito che, attraverso la regia, volevo fare qualcosa per scardinare proprio questo: mettere in scena un corto circuito fra fisico e oggetto del racconto. Ho iniziato con Elettra, biografia di una persona comune, poi è venuto Physique du rôle.

Elettra ha avuto inizio registrando il racconto di Elettra, una ballerina e attrice di varietà amica di famiglia. Lo facevo per non dimenticarla e per seguitare a ricordare lei e la sua vita avventurosa. Lei ha avuto fin dall’inizio un atteggiamento di apertura verso questa operazione che le ha permesso di raccontarsi con candore e sincerità. Quattro giorni di interviste fiume, poi rimontate da me in chiave drammaturgica. Nella riscrittura ho deciso che ciò che volevo era spostare il mezzo del racconto: non volevo raccontare la sua vita attraverso un’attrice anziana, ma attraverso due attori più giovani, mossi dalla stessa passione.

Lì mi sono accorto di come l’emozione possa passare anche meglio attraverso un filtro che permette alle persone del pubblico di identificarsi ugualmente. Forse tutto ciò avviene perché ci facciamo carico delle parole di una persona, ma ribaltando la verosimiglianza fisica. Questo è il nucleo che ho cercato di sviluppare negli spettacoli successivi.

Con Elettra abbiamo vinto il Fringe Festival di Napoli e questo ci ha permesso di produrre Physique du rôle. Tutto nasce da un libro di Sophie Calle, L’hotel dove racconta storie, immaginate solo attraverso le tracce fotografiche rubate, senza la reale conoscenza dei protagonisti. Da queste immagini si creano nuove storie proprio attraverso l’assenza del protagonista. Era la chiave che mi serviva. Ho preso tre personaggi dai lavori di tre autori: I miei genitori di Hervé Guibert, La vita sessuale di Catherine M. di Catherine Millet e Un amore di Dino Buzzati, ho realizzato tre stanze d’albergo e in ognuna ho messo un personaggio interpretato da un attore che non aveva il Physique du rôle per interpretarlo.

Il passaggio successivo è stato arrivare a scrivere direttamente le mie idee. Con Vecchi per niente c’è stata un’altra svolta. Ho iniziato a scrivere io seguendo come guida il saggio La forza del carattere di James Hillman e l’interpolazione di alcune improvvisazione degli attori. Poi è arrivata Nina.

Perché Nina, lo spettacolo ispirato a Nina Simone e a un suo concerto a Montreux?

Perché io riesco a parlare, e a scrivere, delle cose che mi stanno a cuore. Credo che tutti dovrebbero farlo. Parlare delle cose a cui tengono, delle proprie urgenze, dei propri drammi, delle cose di cui si preoccupano. Perché non tutti possono parlare di tutto. Se l’argomento di cui scrivi ti tocca, si vede, si sente. Io ho questo limite: riesco a parlare di quello che mi riguarda. Per quanto riguarda Nina Simone, tutto nasce dal mio sentimento di grande conflittualità con il mio stare in scena.

Io sto cercando un mio linguaggio. In un testo teatrale ci sono già altre indicazioni e questo lo sento come un limite. La mia pretesa è di fare qualcosa di nuovo. L’unica cosa che posso fare è portare in scena quello che provo e sento. Vidi questo concerto di Nina Simone mentre riflettevo sulla difficoltà di andare in scena, su cosa voglia dire affrontarla quotidianamente. Vedere lei mi ha commosso e mi ha dato l’impressione che parlasse proprio di quello. Vedevo una persona che non è veramente lì, ma che aveva una tale sapienza da saperci stare senza farlo notare. Ho scritto di getto il testo che è un monologo sul punto di vista di Nina Simone su quel palco in quel preciso momento e luogo.

Volevo raccontare il disagio di stare in scena, il fastidio, il rapporto con il pubblico. Ma anche la necessità di starci e non saper fare altro. E il non essere compresi che lei incarna molto profondamente. Hai sempre l’impressione che lei voglia dirti qualcosa di altro. E mi sono immedesimato in questa sensazione di incomprensione. Io sono molto affezionato a questo spettacolo: in primis perché è il primo testo che ho scritto completamente, poi perché racconta meglio di altri il mio rapporto con il teatro. È ciò a cui aspiro. E quando vedo un interprete che mi piace, non ne vedo la bravura, ma la lacerazione: una persona che è capace di farti entrare nel suo mondo, ma si porta in scena un conflitto. Non mi interessa la sapienza teatrale, che coincide con il narcisismo, non mi interessa più. Mi interessa mettere a nudo un pezzo di anima

Come ti rapporti agli attori?

Quando studi come attore ti insegnano molto, ma non si lavora mai sul disagio, sullo scomparire in scena invece di apparire per far materializzare un’altra cosa. Io cerco di arrivare a questo stadio. Ci provo. Attraverso la scrittura e la regia.

C’è uno sviluppo ulteriore?

Il passaggio ulteriore del mio lavoro che è ancora in corso, è certamente Io lavoro per la morte. Siccome io so parlare delle cose che mi riguardano, ho scritto uno spettacolo che parlasse di mia madre e della sua morte. Incentrato su un argomento che mi sta a cuore e che mi ha accompagnato in questi anni anche di lavoro. In Io lavoro per la morte si sono fuse le esperienze di Nina e di Vecchi per niente. La prima per la scrittura, la seconda per l’argomento. La mia presenza in scena in questo lavoro è fondamentale. È parte della costruzione drammaturgica perché racconto un pezzo autentico della mia vita. Ma non è un mio percorso catartico, anzi viene alla fine di un percorso analitico.

Hai un sogno da rappresentare?

Dopo ogni spettacolo penso di non poter più scrivere. Poi inizio a vivere, pensare, riflettere, stare solo… a un certo punto sono le tematiche che vengono a cercare me, non il contrario. È capitato con Nina, Vecchi per niente: è l’idea che viene a trovarmi e illumina tutto un lavoro di riflessione alle spalle. Nel momento della prova e del lavoro con gli attori poi però è il momento di maggiore felicità.

Quando finisce uno spettacolo?

Lo spettacolo non finisce mai. Non dopo la prima, ma lo spettacolo si evolve e cambia anche nei rapporti interni fra gli interpreti e con il pubblico. Noi continuiamo a portare gli spettacoli anche anni dopo il debutto: a Brescia saremo in maggio con Nina ed Elettra.

Perché se prosegui a farli con consapevolezza e voglia, aumenta l’autenticità e tutto diviene più fluido. Nelle repliche per me lo spettacolo non si logora, ma guadagna sempre in verità.

Elettra, biografia di una donna comune, Teatro Santa Chiara Mina Mezzadri – Brescia, 17/05/2018

Nina, Teatro Santa Chiara Mina Mezzadri – Brescia, 19/05/2018

Credits fotografici
Io lavoro per la morte . Giovanni De Francesco –
Nina: Giuseppe Di Stefano –
Vecchi per niente: Fabio Artese –
Elettra: Giovanni De Francesco

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