Piccolo atlante dei luoghi fuori posto
Un diario di impressioni, in cui il viaggio si fa dettaglio strano che rimanda a riflessioni fuori dall’ordinario. Stefano Scanu racconta i luoghi “fuori posto” disseminati sul pianeta nel suo libro Il disordine del mondo (Edicliclo Editore).
È un percorso attraverso linee zigzaganti, che parte da quel non-luogo che è il Mont Saint-Michel e si sofferma ad osservare realtà sfaccettate, minuzie sospese. Fa venir voglia di andare a cercare questi dettagli disordinati, che hanno forse storie sconosciute da raccontare.
Stefano Scanu vive, scrive e lavora a Roma. Libraio da più di dodici anni, applica una certa attitudine alla catalogazione anche oltre gli scaffali, tentando di mettere ordine al mondo circostante mentre quello forse non ci sta.
Ha cercato di farlo spingendo qualche ettaro di paesaggio dentro una provetta da laboratorio (Come un albero in un’ampolla, Giulio Perrone editore) e poi registrando e mappando le sale cinematografiche della sua città prima che chiudessero o si riconvertissero in altro (Buio in sala. Guida breve ai cinema di Roma, Giulio Perrone Editore). Stavolta ci prova col globo intero raccontando il caos che lo anima attraverso un atlante impossibile dei suoi luoghi inquieti.
Nel frattempo collabora con le riviste online Perdersi a Roma ed ha collaborato con The Towner Moleskine mentre non smette di spostarsi, fare ordine e catalogare.
Il disordine è uno stato mentale?
Direi di sì, è la conseguenza della nostra percezione del mondo e delle cose, che cozza con la realtà oggettiva: in altre parole quando quello che ci sta intorno non corrisponde al modello organizzativo che abbiamo in mente, allora tendiamo a etichettarlo come disordine.
La verità è che tutto ciò che compone il pianeta ha una organizzazione naturale che l’uomo cerca di forzare da sempre imponendo il proprio ordine. Dopotutto la cartografia che altro è se non un disperato tentativo di stiracchiare il globo su un foglio di carta secondo il proprio bisogno?
Tra tutti i luoghi “fuori posto” che hai incontrato, quale ti ha colpito di più?
Senza dubbio via Trionfale 39. Non lo definirei neanche un luogo ma un’idea. Si tratta di un lungo muro perimetrale nel quartiere Prati di Roma in cui in mezzo all’intonaco consumato spicca un piccolo quadratino di marmo con su un numero civico.
Non si riferisce a nessuna abitazione, sta lì a indicare un posto che è appena scomparso o che forse sta per nascere e di cui quella targhetta è il primo segno di vita, poi verrà tutto il resto. Leggendo il libro si capisce che in realtà siamo di fronte a un vero e proprio refuso urbanistico, anche se lo definirei più un atto di ribellione del paesaggio nei confronti di chi cerca di imbrigliarlo.
Secondo te l’architettura dei luoghi condiziona i nostri pensieri?
Non solo i pensieri ma soprattutto i sentimenti. Non è raro che un luogo per natura labirintico, ci respinga o si neghi trasmettendoci una sorta di disagio; al contrario una piazza può comunicarci un senso di accoglienza e serenità.
I luoghi possono essere stranianti, dispersivi o semplicemente familiari perché ci ricordano qualcosa che abbiamo già visto o vissuto.
Mi vengono in mente tutti quei nonluoghi come i centri commerciali o gli aeroporti. Il fatto che siano sempre uguali a se stessi mi rassicura ma al tempo stesso mi intrappola in una specie di déjà-vu. Insomma, ogni volta che li attraverso ho la sensazione di essere a casa e altrove allo stesso tempo.
A pensarci bene i luoghi non solo condizionano i nostri pensieri, ma ci definiscono del tutto: siamo turisti se facciamo la fila davanti alla Gioconda, esploratori se ci apriamo un varco con un machete in una foresta di mangrovie, maratoneti se corriamo lungo un viale o semplici flâneur se lo percorriamo lentamente guardandoci intorno.
Una domanda al contrario: hai visto posti che sono proprio “al loro posto”?
Ho visto posti che mi hanno ingannato. A volte succede il contrario di ciò che mi aspetto e così molti luoghi che nella mia testa sono effimeri e passeggeri, in realtà continuano ad esistere per molto tempo pur nella loro precarietà, mentre altri che sembrano stare lì in modo assoluto e immanente, come fossero delle montagne, li perdo come giro l’angolo.
Penso a Shishmaref, il villaggio dell’Alaska che a causa della continua erosione della costa, è stato ricostruito esattamente com’era in origine ma qualche chilometro più in là, o alla chiesetta ateniese Agia Dynamis, letteralmente incastrata nella hall del grand hotel Electra, così piccola da sparire dietro un mucchio di trolley impilati.
Il punto è che scrivendo questo libro ho cominciato a pensare al mondo come a qualcosa di vivo, con una propria volontà su cui io non ho alcun controllo. Da quel momento in poi nulla mi è più sembrato al proprio posto.