“Era meglio se la nave Argo non volava verso la Colchide”
Inizia cantando la Nutrice che, assieme al Pedagogo, commenta e racconta le azioni di Medea accadute prima dei fatti rappresentati. Un canto che ci ricorda le melodie del vicino oriente, dal tono basso, quasi gutturale, terrigno e femminile, ma anche antico e straniero insieme.
Tutto ha dunque inizio chiaramente in un passato mitico, con le avventure degli Argonauti, e si sviluppa in un sistema, quello dei miti greci, che ha rimandi continui e simbologie intersecate le une alle altre, in un universo ricco ed eterogeneo di persone, luoghi, atti e culti.
La scelta di drammatizzare un mito come quello di Medea, legato alla figura femminile, all’essere straniero in terra “civilizzata” e ostile, alla violenza degli stessi legami familiari è soltanto una parte dell’impegnativo allestimento ronconiano.
Ogni episodio ha le sue peculiarità sceniche e drammaturgiche che trapassano gli avvenimenti arricchendo di dettagli la messinscena in un vortice di rabbia, paura e vendetta, senza soffermarsi sul presunto femminismo spesso attribuito a questo personaggio. Non è allora, questa Medea, una vittoria della violenza della donna sull’altrettanto violento potere maschilista.
Ronconi sembra avere in mente una Medea “altra” rispetto alla tradizione: fa cadere, grazie alla interpretazione di un attore nei panni della protagonista, il dualismo maschio/femmina che sembra essere il centro propulsore della vendetta contro la prole in un dicotomico e conflittuale rapporto madre/padre.
Assistiamo allora ad un rovesciamento dei generi o meglio a un superamento di essi di cui è prova ancora una volta l’episodio di Egeo, con il suo femmineo desiderio di maternità innestato in un corpo di uomo.
In un cinema semideserto in cui i filmati si moltiplicano e si nascondono insieme, in un luogo che si trasforma in casa, grazie alla presenza degli oggetti più quotidiani della sottomissione casalinga femminile, ruolo affibbiato all’efficacissimo coro, costantemente al di sotto dell’alto palazzo del re, rappresentato dalle scale di servizio di un edificio inesistente, si rappresenta il dramma di Medea, splendidamente tradotto da Umberto Albini per questo allestimento che ha fatto già la sua storia.
Eppure la sua ripresa, ad opera di Daniele Salvo, a molti anni di distanza non offre l’impressione del museo: tutto è ancora perfettamente attuale, contemporaneo e vero come è necessario che sia oggi il teatro. Lo sono le scene essenziali di Francesco Calcagnini riprese da Antonella Conte, i bellissimi costumi di Jacques Reynaud ripresi da Gianluca Sbicca e infine le luci di Sergio Rossi riprese da Cesare Agoni, così come tutto il cast.
Creonte è Antonio Zanoletti che, nel suo breve intervento, sa essere perfettamente in linea con l’idea più generale di espressività violenta e nervosa serpeggiante in tutto lo spettacolo.
Lo stesso valga per il Giasone di Alfonso Veneroso, impegnato nell’arduo compito di fronteggiare la Medea di Franco Branciaroli. Egeo è Livio Remuzzi, ieratico e fragile sugli alti coturni, ma commovente nell’accogliere la sua maternità. Tommaso Cardarelli, impegnato nel doppio ruolo del pedagogo e del nunzio, dà il suo meglio nel secondo in cui attira su di sé, soltanto con l’arte della parola, tutta l’attenzione, senza mai abbandonarsi all’istrionismo fine a sé stesso.
Toccante e malinconica la nutrice di Elena Polic Greco, bella e misteriosa, che fa vibrare la sua voce su melodie antiche, ma anche smuovere gli animi quando inveisce con toni accesi e accenti sinceri. Eccellente il coro che trasferisce nella modernità, espressiva e scenica, il suo ruolo di commento e di compatimento della tragedia antica, vero ponte fra scena e pubblico.
E infine Medea: Branciaroli è superbo, anche a vent’anni di distanza la sua donna barbara non ha perso nulla in energia, efficacia, inventiva, forza, dinamismo (posso ben dirlo, perché ho il ricordo nitido di questo spettacolo anche a tanta distanza).
Utilizza il suo strumento vocale toccando ogni gamma espressiva, dal più gutturale rantolo dell’invocazione alle divinità infernali, fino alle più stridule e acute dell’invettiva contro Giasone. L’atteggiamento del corpo è plastico, assume di volta in volta le pose statuarie della supplica, dell’aggressività, della seduzione, dell’inganno e lo fa fluidamente, senza soluzione di continuità.
L’acme della tragedia, che coerentemente Ronconi ha fissato nella scena finale, lo vede ancora una volta protagonista dell’utilizzo contemporaneo delle antiche macchine sceniche.
La mekané con cui si rivela l’assassinio dei figli si svela dietro uno dei grandi schermi (forse il teatro ha più veridicità del cinema, vuol forse dirci Ronconi?).
In alto, all’interno di una vasca da bagno distrutta e coperta di sangue, accanto ai corpi dei figli, appare Medea/Branciaroli, in veste bianca e con una maschera d’oro sul volto, come una trasfigurazione moderna dell’Atena Parthenos, simbolo del viaggio verso Atene alla ricerca di un rifugio, ma anche del perdersi di Medea fra le nebbie del mito, per sempre.