La compagnia Rioult Dance di New York, fondata da Pascal Rioult, ballerino e coreografo francese con la passione per la “fisicità americana”, appresa proprio negli Stati Uniti, e la “sensibilità” che noi europei mettiamo nei movimenti, mercoledì 12 aprile, al Rossetti, ha portato in scena quattro delle sue coreografie.
La Sala Assicurazioni Generali del Teatro Rossetti di Trieste si è riempita di appassionati di danza e di musica classica e in scena si sono presentati quattro ballerini che si muovevano sulle note della “Sonata per violino e pianoforte in Sol maggiore” di Johan Sebastian Bach.
La coreografia creata sette anni fa si intitola “City” e la caratterizzano gli sfondi proiettati che rievocano una metropoli.
Il primo di questi raffigura una folla di persone che camminano in una larga strada, e sono talmente tante che l’asfalto nemmeno si intravede.
Non abbiamo neanche il tempo di apprezzare lo sfondo di grande impatto, che notiamo i ballerini emergere dalla folla e iniziare a muoversi insieme. Ci disorienta un po’, all’inizio, vedere movimenti scattanti della danza moderna su melodie classiche, ma la sensazione dura poco: il coreografo gioca proprio su questo contrasto, accentuandolo e appianandolo con grandissima abilità.
Capiamo subito che la prima coreografia dà molto spazio agli assoli dei ballerini, ognuno dei quali sembra esprimere uno stato d’animo, che cerca di soffocare e reprimere. E nel mentre, gli altri tre compongono un corpo di ballo che esegue movimenti ripetitivi e schematici.
Sembrano rappresentare la folla nella grande città dello sfondo iniziale e, allo stesso tempo, rappresentano anche noi: sembriamo tutti copie identiche, mascheriamo e reprimiamo i nostri stati d’animo, quando siamo in mezzo alla folla.
Il sipario si chiude e una luce magenta soffusa ci fa compagnia fino a “La Valse” di Maurice Ravel, musica sulla quale, ventidue anni fa, Pascal Rioult ha creato un vero capolavoro di coreografia.
“Wien” è spettacolare: sei ballerini in scena che si muovono con movimenti circolari in una giostra di decadenza e finzione.
I movimenti raggiungono un livello di coordinazione e di fluidità tale da creare una cosa sola con la musica, e guardare gli interpreti vorticare e rappresentare l’umanità che cade ma si rialza subito, fingendo di non essere mai inciampata, simulando un sorriso mentre è abbandonata a terra, fa davvero impressione.
I ballerini si inseguono a vicenda, si scavalcano, ognuno cerca di sottomettere gli altri in un disperato tentativo di essere l’unico; ma nessuno ci riesce, finendo per seguire le convenzioni, tutti insieme, tutti uguali, come una mandria. È una rappresentazione tragica del mondo, ma veritiera, e per questo ci fa male.
La coreografia ha ricevuto gli applausi più sentiti della serata, e tra un “Bravi!” e qualche fischio di ammirazione, il sipario si è nuovamente chiuso.
Le due coreografie che seguivano erano in prima italiana assoluta.
“Duets Sacred & Profane” erano una serie di piccole coreografie di coppia. Ne citiamo la prima, e più toccante, tra queste, rappresentava lo sgomento e il non capacitarsi di un uomo, di fronte alla morte della compagna.
I due ballerini sono riusciti a ricreare dolci movimenti carichi di affetto e dolore, e una lode particolare va fatta alla ragazza che doveva accompagnare i movimenti di lui continuando a dare l’impressione di essere un “peso morto”.
La coreografia che chiudeva l’appuntamento di danza era “Dream Suite” sulle note della “Suite n.2 in Do maggiore” di Čajkovskij, che ha avuto un effetto straniante, dando l’idea di un sogno, di un mondo surreale che si ispirava alla pittura di Marc Chagall, come si nota soprattutto nelle maschere indossate da tre degli undici ballerini presenti in scena.
Con il ricordo della bellezza decadente di “Wien” ancora negli occhi, che forse avrebbe dovuto essere quella prescelta per chiudere la rappresentazione, ci è impossibile essere altrettanto entusiasti al momento degli inchini per “Dream Suite”, ma abbiamo lasciato il teatro lo stesso soddisfatti dal ricordo della serata.