A Bologna, il Palazzo Albergati ospiterà dal 19 novembre 2016 al 26 marzo 2017 la mostra
«La Collezione Gelman: arte messicana del XX secolo. Frida Kahlo, Diego Rivera, RufinoTamayo, María Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Ángel Zárraga» a cura di Gioia Mori, patrocinata dal Comune di Bologna, prodotta e organizzata da Arthemisia Group.
Nel bell’edificio, costruito attorno al 1520 su probabile disegno di Baldassarre Peruzzi, il simpatico e colorato allestimento di PANSTUDIO architetti associati, incornicia metaforicamente e materialmente le tele in mostra che contraddistinguono la “Rinascita dell’arte messicana”, avvenuta tra gli anni Venti e Sessanta.
L’esposizione propone le opere della Collezione Gelman, tra le più importanti raccolte d’Arte Messicana del XX secolo, in cui si distinguono Frida Kahlo e Diego Rivera, affiancati da molti altri autori. La Collezione Gelman nasce nel 1941 quando Jacques Gelman e Natasha Zahalkaha, due emigrati dall’Est Europa, si incontrano e si sposano a Città del Messico: Jacques era un ebreo russo di San Pietroburgo, emigrato in Francia dopo la Rivoluzione d’Ottobre e arrivato nel 1938 in Messico, dove fa fortuna producendo i film comici di Mario Moreno, il Charlie Chaplin messicano. Nel 1943 Jacques commissiona a Diego Rivera il ritratto di Natasha (presente in mostra): è l’inizio di una lunga avventura e di una grande collezione composta da dipinti, fotografie, abiti, gioielli, collage, litografie e disegni.
La mostra si articola in due sezioni: nella prima si concentra soprattutto la pittura di Diego Rivera, con opere come L’ultima ora (1915), testimonianza della fase cubista e parigina, in cui frequentava Picasso, Ritratto di Cristina Kahlo (1943), risalente all’anno in cui intrecciò una relazione con la stessa e con dipinti di Rufino Tamayo, María Izquierdo, David Alfaro Siqueiros e Ángel Zárraga; la seconda, al piano superiore, si concentra sul racconto dell’opera e della vita di Frida, attraverso varie tematiche: i suoi drammi fisici trasposti in pittura, i suoi animali, il rapporto con Diego e l’essere diventata un’eroina per il suo popolo ed un’icona fashion per i posteri.
Al piano terra si viene accolti da un bel documentario che racconta bene il rapporto d’amore tra Frida e Diego fatto di amore profondo, passione, condivisione degli stessi ideali, ma anche animosità, tradimenti e dolore.
I due erano molto diversi: lui il grande pittore muralista conosciuto in tutto il Paese, ben pagato, più che quarantenne, alto e corpulento ma sobrio nell’aspetto.
Lei ventenne, minuta, con problemi fisici dovuti ad una poliomielite contratta quando era bambina e ad un terribile incidente che le aveva distrutto il corpo all’età di 18 anni, per il quale sarà costretta ad affrontare 32 operazioni chirurgiche, a vivere in corsetti di gesso e con dolori lancinanti per tutta la vita.
Appariscente nel suo modo di vestire; indossava gli abiti delle indigene, acconciature vistose per i suoi lunghissimi capelli, collane e anelli che richiamavano le sue origini ebraico tedesche da parte del padre, cristiano messicano da parte della madre in un mix ricco di grande personalità.
All’inizio lei era solo l’estrosa signora Rivera, soprattutto durante il soggiorno di quattro anni in America, ma ben presto si fece conoscere ed apprezzare per il suo personalissimo modo di rappresentare la realtà tanto che Picasso, in una lettera a Diego disse:
«Né Derain, né tu, né io siamo capaci di dipingere una testa come quelle di Frida Kahlo »
Al secondo piano è possibile vedere una riproduzione della camera di Frida con i suoi vestiti coloratissimi, le numerose collane, il letto a baldacchino con uno specchio, montato nella parte superiore interna, grazie al quale riusciva a fare i suoi autoritratti anche quando era costretta a letto, con una scultura di uno scheletro nella parte superiore esterna; lei aspettava la morte per liberarsi dai dolori lancinanti che la tormentavano, diceva infatti:
“Spero che la fine sia gioiosa e spero di non tornare mai più”
questo però non le impediva di lavorare con passione e pazienza, diceva infatti:
“Non sono malata. Sono rotta. Ma sono felice, fintanto che potrò dipingere” e ancora: “Rinchiudere la propria sofferenza significa rischiare che ti divori dall’interno”
il rapporto ossessivo con il suo corpo martoriato caratterizza uno degli aspetti fondamentali della sua arte, scrisse a proposito Diego:
“… È la prima volta nella storia dell’arte che una donna esprime con totale sincerità, scarnificata e, potremmo dire, tranquillamente feroce, i fatti e particolari che riguardano esclusivamente la donna. La sua sincerità, che si potrebbe definire insieme molto tenera e crudele, la portò a dare di certi fatti la testimonianza più indiscutibile e sicura; è perciò che dipinse la sua stessa nascita, il suo allattamento, la sua crescita dentro la sua famiglia e le sue terribili sofferenze, e di ogni cosa senza permettersi mai la minima esagerazione né divergenza dai fatti precisi, mantenendosi realista e profonda, come lo è sempre il popolo messicano nella sua arte, compresi i casi in cui generalizza fatti e sentimenti, arrivando alla loro espressione cosmogonica …”
L’arte di Frida è indissolubilmente legata ai dolori che ha dovuto subire nella vita: l’incidente le ha precluso la possibilità di avere figli e questo è stato un grande cruccio per lei che più volte ha rappresentato se stessa in un letto d’ospedale, col feto e con tanto sangue; per esprimere idee e sentimenti, crea un proprio linguaggio figurativo, il mondo contenuto nelle sue opere si rifà soprattutto all’arte popolare messicana e alla cultura precolombiana.
Vi sono infatti, immagini votive popolari, raffigurazioni di martiri e santi cristiani, ancorati alla fede del popolo; inoltre, negli autoritratti, che costituiscono circa un terzo della sua produzione artistica, l’artista si rappresenta quasi sempre in abiti di campagna o con costume indio, che effettivamente indossava, perché le donne di città dichiaravano in questo modo il primato del loro legame con la natura, il costume era una maschera primitiva che liberava dalle convenzioni borghesi.
Del Messico, poi, ritroviamo nelle sue opere la flora e la fauna, i cactus, le piante della giungla, le scimmie, i cani itzcuintli, i cervi e i pappagalli.
La novità di questa mostra a Palazzo Albergati rispetto alle precedenti che ci sono state in Italia tra il 2014 ed il 2015 a Roma alle Scuderie del Quirinale ed a Genova a Palazzo Ducale nel raccontare Frida, è rappresentata dalla presenza di creazioni stilistiche di maestri del calibro di Gianfranco Ferrè, Jean-Paul Gaultier, che ha concesso il video della sfilata Tribute to Frida Kahlo, del 1997, Raffaella Curiel, Antonio Marras e Valentino.
Frida è certamente un’artista poliedrica ma, la caratteristica che lascia senza parole è sicuramente la sua volontà indomita di amare la vita a tutti costi, nonostante il dolore del corpo e dell’anima per i continui tradimenti del marito, nonostante le menomazioni; l’opera “Viva la vida”, purtroppo non presente in mostra ma ampiamente descritta nel documentario che accoglie il visitatore, è emblema di tutto questo.
Nell’ultima sala, la visione dell’opera Autoritratto come Tehuana, (o Diego nei miei pensieri), autentica dichiarazione d’amore al marito, è accompagnata dal brano Gracias a la vida di Violeta Parra, canzone melanconica ma piena di gratitudine per la vita, un po’ come è stata l’esistenza e l’arte della Kahlo e si va via dalla mostra con la gioia nel cuore.
Per volontà dei prestatori e degli organizzatori, una parte del ricavato andrà a favore dei terremotati dell’Italia centrale.
Per questo Ar