Le vicende di personaggi storici, spesso, sono fonte di ispirazione per artisti, scrittori ma anche per la gente comune, che si lascia sedurre da fatti accaduti secoli fa.
Il personaggio di Beatrice Cenci, non fa eccezione, anzi conferma la regola.
Della giovane nobildonna del tardo rinascimento romano hanno raccontato intellettuali e artisti come in The Cenci, una tragedia di Percy Bysshe Shelley; mentre il giovane volto ufficialmente attribuitole è quello del famoso ritratto che ne fa Guido Reni, dall’intuitivo titolo “Il ritratto di Beatrice Cenci“; neanche Stendhal è rimasto immune al personaggio, quando nella prima metà dell’800 scrive “Les Cenci“, mentre era il 1955 quando l’esistenzialista Alberto Moravia le dedicava l’omonima tragedia.
Per non parlare degli innumerevoli racconti spaventabambini e acchiappaturisti che raccontano del fantasma di Beatrice fare la sua apparizione nelle notti a cavallo tra il 10 e l’11 settembre (data in cui fu decapitata). La pittoresca leggenda vuole che la giovane donna se ne vada a spasso con in mano la sua testa (n.d.r) non trovando pace per essere stata giustiziata “ingiustamente”.
Beatrice è la giovane donna violata dal padre; è la ragazza percossa perché rifiuta di concedersi; Beatrice è la figlia che, a soli 16 anni, viene giustiziata perché, accusata di parricidio, infatti stanca della sua vita “che non è mai iniziata” di concerto con la matrigna, il fratello e un giovane servitore, uccidono il dispotico padre Francesco Cenci.
Ma cosa succede quando una donna del nostro tempo, di fronte alle violenze del despota di turno, rilegge la storia di Beatrice?
Cosa accade quando si scopre la realtà del perverso meccanismo per cui l’amore non può avere come compagna di viaggio la violenza?
È davvero forte l’immagine che restituisce Simone Martino della suddetta riflessione, nell’opera musicale Beatrice Cenci in scena fino al 19 aprile al teatro Greco di Roma.
Un’opera concerto che torna in scena dopo vari premi e che rimette in discussione in chiave attuale vecchie vicende e antiche malefatte.
Una donna contemporanea (intensa Ilaria Deangelis), malmenata si chiede come sia possibile che la sua condizione di donna sia rimasta quasi immutata nei secoli.
Un viaggio a direzioni alternate ricco di spunti e riflessioni, arricchito dalla riconfermata bravura degli artisti.
L’innocenza di Beatrice è interpretata dalla brava Sharon Alessandri; il personaggio che nessuno di noi vorrebbe mai incontrare…vivo, Francesco Cenci è ottimamente interpretato da Giuseppe Cartellà che è anche il librettista insieme a Martino; ad essere aiutante di Beatrice, il fratello Giacomo, a dargli vita e passione Enrico D’Amore; altra figura amica della protagonista è la matrigna Lucrezia Petroni Velli, interpretata con grande bravura da Mariagrazia Di Valentino; riconfermo la mia opinione sulla bravura di Lorenzo Tognocchi, stavolta nei panni di Olimpio Calvetti servitore della famiglia Cenci e dall’animo nobile; un deciso e profondo Paolo Gatti è il Giudice; la nota di colore…almeno inizialmente, la suona l’esuberante Marco Manca nelle vesti del Bargello.
Ottimo il lavoro di costumeria affidato a Laura Federico e Rita Pagano, ricco di dettagli. Cura meticolosa che passa dagli inserti scintillanti del corpetto di Lucrezia; al damascato delle maniche di Giacomo; azzeccata anche la scelta di vestire il Cenci padre quasi a ricordare il Selvaggio con Brando; uno sfarzo dell’abbigliamento che contribuisce ancora di più a rendere quell’idea di come dietro le apparenze di un millantato benessere si celino situazioni drammatiche…delle vere povertà umane.
Un bel lavoro che porta la firma della regia di Davide Lepore mentre musiche e orchestrazione sono del già citato Simone Martino.
Un’opera che commuove, non solo per la vicenda stessa accaduta più quattro secoli fa, ma più per la consapevolezza che questa potrebbe essere una storia letta ieri su un qualsiasi quotidiano.
Un’emozione resa con uno speciale tocco artistico dalla bravura dell’intera compagnia dalle quinte al palco…come sempre.
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