mercoledì 6 agosto 2014
Oreste
di Vittorio Alfieri
Regia Ilario Grieco
Compagnia Stabile del Molise
con Paola Cerimele, Raffaello Lombardi, Diego Florio, Giorgio Careccia
Costumi di Silvia Perrella
Note di regia
Nel vortice della orrenda spirale di sangue che attanaglia e contrappone le antiche famiglie di Atrèo e Tièste, ci troviamo ad Argo, nella règgia del sepolto re Agamennone, a dieci anni esatti dal suo brutale assassinio avvenuto per mano della moglie Clitennestra. La vicenda ed i personaggi sono, quelli del mito greco e l’archètipo drammaturgico ne è ovviamente “Coefore” di Eschilo, cioè quella parte della storia che vede il figlio di Agamennone e Clitennestra, Oreste, tornare dalla Focida insieme al suo fedele cugino Pilade con lo scopo di vendicare il padre defunto, uccidendo Egisto, usurpatore del trono regale, e l’adultera sua madre. La più importante novità che Alfieri propone rispetto al modello antico è questa: Oreste torna con la sola brama di uccidere Egisto. Questa novità coincide con la straordinaria modernità del testo alfieriano rappresentata dal fatto che Oreste ucciderà comunque Clitennestra, avverando dunque i dettami dell’oracolo, ma come in un raptus, nell’incoscienza cioè di un agire smisurato che affonda le sue radici nell’animo buio e fondo dell’uomo, una vera e propria patologia o corto circuito della personalità. Non c’è il calvario nella coscienza dell’eroe greco imposto dalla dea necessità, non c’è il lucido cammino nell’esperienza della vita che porta alla catarsi. Alfieri realizza uno scientifico prosciugamento dei meccanismi della tragedia antica: il rito collettivo e il riscatto sociale lasciano il posto ad una vicenda privata di uomini dall’alto sentire, la cui risoluzione dei loro conflitti tragici non può che essere la morte o come in questo caso, la follia, che è il destino appunto di questo Oreste. Esclusi il coro e i personaggi secondari, l’azione viene affidata ai soli personaggi principali, che svuotati del loro arcaico eroismo, diventano grandiose figure di esistenze domestiche, che vivono il loro dramma all’interno delle mura di una casa. L’impalcatura mitica cade e Clitennestra diventa madre, Oreste ed Elettra sono semplicemente figli, Egisto il patrigno: siamo di fronte a un prototipo di teatro borghese, in cui è la famiglia il centro delle tensioni tragiche, con tutto il carico di dolore che ne consegue.
La nostra Compagnia ha cercato di cogliere l’invito e insieme la sfida lanciata da questo rivoluzionario conte settecentesco più di duecento anni fa: e se la follia di Oreste, anziché un grido di dolore incessante, dopo il culmine della sofferenza, fosse una lucida repressione o anestetizzazione delle sofferenze e delle nefandezze vissute? Quale stato, o nevrosi, infondo, è più spietata e attuale di questa?
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