di Francesco Raducci
Interviste di Matteo Lucchi
Né donna, né bambina. Maria anima giovane in un corpo fragile ma allo stesso tempo energico, pieno di linfa vitale che vuole straripare, inondare tutto con la sua voce: la sua sola colpa è amare alla follia, con tutta la sua natura, il suo essere, l’oggetto del suo amore cosmico e smisurato Nino. La Disperazione diventa una lancia che vorrebbe squarciare i fili orditi dalle trame dall’ingiusto cosmo.
Al teatro Kopò in Roma, nuovo e dinamico spazio teatrale nato ai margini della periferia, vai in scena dal 14 al 18 maggio “Perché amo il mio peccato” libero adattamento del racconto verghiano “storia di una Capinera”con la brava e energetica Francesca Verzaro nel ruolo di Maria, Diego Placidi che cura anche la regia e le due Moire Nunzia Mita e Giovanna Cappuccio.
Lo spettacolo anche se con alcune pecche risulta essere molto interessante su diversi fronti : la regia di Diego Placidi sceglie un ambientazione dark, fatta di chiari scuri molto forti, in cui la luce viene dosata con estrema cura scegliendo tonalità calde a contrasto per far emergere una passionalità disperata che è contemporaneamente dentro e fuori alla protagonista. A sottolineare questa atmosfera”inscatolata” intima ma disperata quasi soffocante e claustrofobica il regista sceglie una colonna sonora a tutto campo fatta di archi e violini che però pur aggiungendo pathos eleganza e poesia a volte “soffoca” la bella recitazione degli attori. La Messa in scena è molto raffinata, l’utilizzo di elastici rossi che Legano e fanno muovere le Moire come marionette angeliche ma carnali è una scelta molto apprezzabile per effetto scenico e per contestualizzare il testo, ben scritto poetico, aulico nella tessitura ma asciutto e mai ridondante.
Straordinaria per fisicità, energia, e interpretazione la giovanissima interprete di Maria, Francesca Verzaro, intensa in ogni singolo momento della drammaturgia, vera nel trasmettere le sfumature della giovane Maria, drammatica, disperata, intrappolata in un destino che si tesse intorno a lei e che lei con tutte le sue forze non riesce a spezzare. Forse la recitazione della protagonista viene un po’ troppo penalizzata nei movimenti di scena che la vogliono costantemente in uno stato di frustrata disperazione a terra, precludendo la visione completa dello spazio allo spettatore che non riesce a trovare continuità visiva e energetica.
Perché amo il mio peccato è uno spettacolo intimo, dall’allure antico, carismatico quasi vintage, in cui per contrasto traspare la freschezza, l’energia e l’entusiasmo di un gruppo affiatato e giovane che “rilegge” un grande classico della nostra letteratura con grande rispetto, eleganza, contaminandolo però con un linguaggio fortemente visivo e sperimentale più vicino al cinema che al teatro classico.
Da vedere.
Cosa vi ha portato a proporre a teatro l’opera di Giovanni Verga “Storia di una capinera” e come mai avete deciso di titolare “Perché amo il mio peccato” invece di, come avrebbero fatto altri, “sfruttare” il nome originale dell’opera?
La precedente versione dello spettacolo era un monologo e la protagonista era un’altra attrice quindi, semplicemente, ho voluto riportare in scena la stessa vicenda ma in una forma diversa.
Riguardo al titolo, esistono due motivazioni per le quali non ho usato il nome originale dell’opera.
La prima è che esistono già alcuni film e spettacoli che hanno sfruttato la fama di “Storia di una capinera” ed io non volevo fare lo stesso. Ho preferito puntare più sul valore di questa rappresentazione e sulla storia che sulla fama di Verga.
La seconda è che, durante il riadattamento, sono rimasto colpito da una frase della protagonista: << Perché io amo il mio peccato >>. Trovandola interessante ed accattivante ho deciso di usarla come ispirazione per il titolo.
Nello spettacolo compaiono due figure totalmente nuove per l’opera, le Moire. Controllano i fili del destino della protagonista eppure non possono interagire direttamente con essa. Come è venuta l’idea di aggiungere questi due nuovi personaggi?
Dopo la prima messa in scena del monologo era nata l’esigenza di dare una maggiore importanza a questo destino. Nell’opera si sentiva e lo si percepiva ma non era abbastanza.
Con questo riadattamento ho voluto sperimentare, dando corpo a questo fato crudele. E niente poteva ricoprire questo ruolo meglio delle Moire.
Francesca, tu sei la protagonista ed il centro di tutta la rappresentazione. Che tipo di lavoro hai svolto per fare tuo il personaggio di Maria e quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato nel tuo percorso?
Con Dario ci siamo concentrati soprattutto sul corpo. Il lavoro che ho fatto e la maggiore difficoltà si sono incontrati sullo stesso aspetto. Nello spettacolo io tento di far arrivare le emozioni del personaggio prima di tutto con le mie movenze e con il mio corpo e solo dopo con le parole. Il problema è che Maria prova forti ed innumerevoli sensazioni contrastanti contemporaneamente ed il mio compito è quello di esprimerle senza cadere in una interpretazione che possa risultare eccessiva.
Sinceramente mi sono affezionata al personaggio, sia per via della quasi eccessiva crudeltà con cui Verga sembra trattarlo ma anche perché ho trovato affascinante, leggendo il libro, il paragone che viene fatto tra Maria e la capinera. Paragone e immagine che spero di essere riuscita ad inserire nello spettacolo.