“L’arte si specializza e diventa comprensibile solo agli artisti che cominciano a lamentarsi dell’indifferenza del pubblico. Poiché in tempi simili l’artista medio non ha bisogno di dire molto e gli basta un minimo di ‘diversità’ per farsi notare e osannare da certi gruppetti di mecenati e conoscitori (il che può comportare grandi vantaggi materiali) una gran massa di persone superficialmente dotate si butta sull’arte, che sembra così facile.” (V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, 1910)
Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un articolo del The Guardian firmato da Charles Saatchi, proprietario dell’omonima galleria londinese e uno tra i più noti collezionisti e mecenati mondiali, la sua invettiva contro il mercato globale dell’arte credo sia una delle critiche più lucide e lungimiranti che io abbia letto negli ultimi anni.
Premesso che Saatchi avrà avuto sicuramente il suo buon tornaconto dalle sprezzanti parole che ha rivolto a certe élite aristocratiche, di cui va sottolineato che ne è parte integrante, credo sia giusto e costruttivo iniziare a parlare di una patologia che sta infettando il sistema arte. Utilizzare il sostantivo “sistema” dinnanzi la parola arte trovo sia già di per sé lo specchio di una contraddizione reale e concreta; un sistema implica rigide regole, schemi ottusi da dover rispettare, inutili incasellamenti da compilare in modo burocratico e intransigente.
Qualcosa si sta perdendo o forse è già sulla via del non ritorno, Saatchi nel suo attacco parla di “credenziali artistiche che crescono di pari passo con la ricchezza” laddove dell’arte non interessa realmente a nessuno.
L’oggetto artistico nei salotti di questa dirigenza culturale assume il ruolo di orpello, mera decorazione da mostrare agli occhi di ignari spettatori o di finti autocrati interessati.
Cosa rimane, dunque, degli eleganti vernissage dove il presenzialismo sembra l’unica forma di comunicazione?
A chi interessa dell’artista, delle sue volontà poetiche, dei suoi affanni?
Quali sono le conseguenze di scelte curatoriali tacciabili di revisione che troppe volte mettono da parte la vera essenza di un’opera artistica?
Mi pongo domande a cui non riesco a dare una risposta esaustiva, mi trovo dinnanzi quella che definirei senza mezzi termini un’estetica dell’assenza.
L’estetica dell’assenza domina ogni componente di un sistema vivisezionato, entra nei meandri di questo gioco perverso stabilendone le regole, interagisce con fruitori spaesati, elegge a suo interlocutore privilegiato una critica sempre più enigmatica, che definirei a tratti ermetica.
Presenziare alle vernici, alle innumerevoli inaugurazioni da cui siamo subissati, è parte integrante di questa estetica di inizio millennio, è forse l’aspetto più estremo in cui il vuoto di contenuti si palesa attraverso forme ardimentose di un apparato che vuole a tutti i costi definirsi artistico.
Se nelle impietose regole di mercato non esiste una via di ritorno, è nei protagonisti di questo organismo che bisogna rintracciare una fonte di luce.
Sono certa che nella consapevolezza degli artisti e del loro lavoro risieda quell’elemento capace di scardinare questi valori precostituiti che nulla colgono della poetica di un’opera, sono tante le figure di spicco che sentono di doversi ribellare a certi gioghi da cui sottrarsi per ritrovare la libertà di percorrere il sentiero giusto senza piegarsi alle logiche di curatori, critici, addetti ai lavori e perché no anche di giornalisti, social network e magazine specializzati.
L’arte trova la cura in se stessa, nella capacità di rigenerarsi dai manierismi, dalle troppe forme di aberrante imitazione, da quella classe privilegiata che vede nell’opera un status intellettuale o peggio ancora sociale ed economico.
È doveroso ritrovare il senso alto del mestiere, nelle mie righe associo spesso la parola mestiere all’arte perché “mestiere” diviene un attributo nobilitante in questa contemporaneità che sembra aver perso il privilegio di sporcarsi le mani, una contemporaneità che necessita di fermarsi per riflettere sul suo ruolo e per capire i sintomi di una nuova dimensione culturale.
La velocità del nostro tempo, a cui ognuno di noi è soggetto, ha inciso profondamente sul rapporto tra pensante e pensato, ha deviato le aspettative di un futuro che non è più un’articolazione del presente, il compito dell’arte oggi come nei secoli precedenti è quello di intercettare nuove connessioni per dare vita a nuovi mondi, a nuovi modi di intendere l’uomo.
Nel 1980 su di un vagone della metropolitana di New York un artista che si firmava Freedom ricopia il gesto della creazione dell’uomo della Cappella Sistina di Michelangelo e scrive sotto le mani tese due domande: “What is art? Why is art?” Rispondere oggi a questi interrogativi è forse il primo passo verso una critica lucida e costruttiva che permetta di ritrovare quello che Kandinskji definì in prima istanza lo spirituale nell’arte.
Copertina: Oldřich Kulhánek